I giorni a cavallo tra la fine di un anno e l’inizio del successivo per me sono quasi sempre un po’ sospesi, e questi ultimi lo sono stati più che mai.
Non sento lo spirito natalizio, sono allergica alle riunioni di famiglia che si protraggono per giornate intere, e ultimamente era più semplice trovarmi su qualche sentiero (lo scorso anno anche su qualche spiaggia, ma meglio non pensarci troppo) che seduta a una tavola imbandita.
Quest’anno, in realtà, anche io ho iniziato l’anno seduta al tavolo della cucina. Davanti, però, invece del piatto avevo l’agenda, fogli, pennarelli. Per rielaborare i dodici mesi passati, e per immaginare i prossimi.
Arianna mi manda un’email un’ora prima del nostro appuntamento, scrivendo che mi allega gli esercizi che ha fatto, anche se “non c'è niente di tutto quello che mi hai chiesto”. Quando ci vediamo, mi racconta che continuava a guardare le domande, e a chiedersi quale fosse la risposta giusta. Nel dubbio dell’incertezza, l’unica soluzione possibile le era sembrato non rispondere.
Che si parli di noi come individui, come parte di un gruppo o del contesto più allargato, è evidente che in questo momento il mondo ci appare più incerto che mai, e la tentazione di stare fermi ad aspettare (Che cosa? Boh, qualcosa, qualsiasi cosa) a tratti sembra irresistibile.
Eppure sono anni che ci ripetevamo che il mondo moderno è VUCA - uno di quegli acronimi comodi come un marchio per identificare le competenze necessarie per affrontare il contesto in cui ci muoviamo: volatile, incerto, complesso, ambiguo.
Ma le definizioni, si sa, da sole portano poco lontano.
Torno a un pezzo di Annamaria Testa uscito sulla soglia di quello che la maggior parte di noi non si rendeva conto essere un passaggio di non ritorno. Un pezzo sull’incertezza, che ci aveva investito ma che ancora non avevamo del tutto riconosciuto. Sulle alternative per affrontarla, e su come la maggior parte delle strategie non sia in realtà efficace.
Ecco, nove mesi dopo mi pare chiaro.
L’incertezza, quella fuori, è più che mai presente. E sull’incertezza, quella dentro, non abbiamo fatto un gran lavoro.
Una delle cose che mi affascinano maggiormente, nel confronto con i clienti che incontro, è quanto riusciamo a essere tutti diversi e tutti uguali. Cioè, ciascuno arriva con la sua personale e unica esigenza, il suo vissuto, la sua esperienza. Con paure, attitudini, convinzioni.
I meccanismi di difesa, però, quelli che spesso sono anche quelli in cui ci incastriamo, alla fine si assomigliano tutti.
Fingiamo di non vedere anche quando abbiamo le cose sotto gli occhi, ci inventiamo una realtà alternativa e parallela, ci concentriamo solo su un dettaglio invece che guardare il quadro completo.
Qualche settimana fa parlavo con Sandra. Mi raccontava la sua preoccupazione per un’importante scadenza di lavoro, e come per questa avesse dovuto rinunciare al consueto ritorno estivo presso la famiglia di origine, di come un po’ temesse l'idea di un'estate solitaria in città, mentre avrebbe voluto staccare un po’, immergersi nella natura, respirare un po’ d’aria dopo tanti mesi di confinamento.
Scavando un po’ più a fondo, però, avevo scoperto che la scadenza non era così imminente, che le amiche non erano partite senza di lei, che nessun piano era stato proposto e bocciato.
“Vuoi fare una prova?” Fabiana si affaccia alla finestra cercando qualcuno che passi per la strada “Hey, come ti senti? Tutto bene? Niente ansia?”
Io rido, ma so che ha ragione.
Che il fatto che in questo momento io mi senta più nervosa e insicura del solito non è niente di eccezionale. Che i miei sbalzi di umore e le mattine in cui mi sveglio già storta mi accomunano a una percentuale non meglio specificata della popolazione, ma senza dubbio una percentuale alta.
D’altra parte, non c’è da stupirsi.
L’ansia (e non parlo di ansia patologica, che quella di certo non mi compete), lo spettro variegato di preoccupazioni che a volte mandano i pensieri in cortocircuito, è determinata da stress ambientali, e sfido chiunque a sostenere che l’ambiente attuale non sia stressante.
Se ci aggiungiamo che l’ansia è probabilmente una delle emozioni più contagiose che esistano, ecco che la dimensione potenziale del problema assume caratteri più netti.
Se è vero che le parole creano la realtà (ed è vero che le parole creano la realtà), cosa succede quando pratichiamo il silenzio?
Fuori piove, io sono seduta alla solita postazione di fianco alla finestra, perché come una pianta mi protendo naturalmente verso ogni fonte di luce. Se penso a un anno fa, e probabilmente a tutti gli autunni prima, il mondo appare alla rovescia. Allora riuscivi forse a trovarmi in casa un giorno a settimana, oggi riesco forse a uscire un giorno a settimana. E più che altro perché voglio, non tanto perché devo.
Faccio sessioni di coaching online, affianco i clienti in progetti di consulenza online, tengo webinar online.
Ho sempre sostenuto di essere un po’ asociale, ironizzando sul mio bisogno di isolarmi ciclicamente da tutto e da tutti. Di staccare il telefono, di sparire. Dal mondo, forse un po’ anche da me stessa.
Ho imparato a conoscerlo bene, il silenzio.
Corro all’alba in silenzio, scrivo in silenzio. A volte sto in silenzio anche quando sono di fianco a una persona, e mi rendo conto quanto questo possa risultare spiazzante.
Le parole fanno parte del mio lavoro, ma sono prima di tutto il modo in cui funziona la mia testa.
Sarà per questo che sono loro a farmi compagnia, nelle ore di strada solitaria che caratterizzano le giornate di cammino. Cerco le parole, le combino e le contrappongo, le avvicino e lascio che si allontanino. Le osservo. Mi sembrano ogni volta nuove, anche quelle pronunciate mille volte. Sarà che rallentando riesco a vederle da un’angolatura differente, da cui perdono forse un po' della loro forma, per mostrare solo la sostanza.
Non so se sia vero che quando scegli un cammino lo fai perché è lui a chiamarti, o se quelle che definiamo coincidenze sono il modo che il nostro cervello usa per dare risposte a quello che stiamo cercando. Non so se sia la casualità della serendipity o la scientificità dell’attenzione selettiva.
Che la soluzione a un problema non ci arriva praticamente mai quando siamo concentrati sul problema stesso è qualcosa che abbiamo sperimentato tutti. Come pare abbia affermato Albert Einstein, "Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”.
Ho anche osservato che le idee mi arrivano spesso quando sono più concentrata sul corpo, che sulla mente. Quasi sempre mentre corro, a volte mentre dormo. Come giovedì scorso. Apro agli occhi all’improvviso, allungo la mano verso il comodino, butto giù mezze parole con quella calligrafia che già è pessima quando scrivo da sveglia, figuriamoci a notte fonda.
Al mattino rileggo quello che ho scritto.
Abitudine.
Mi manca.
La realtà delle cose.
La certezza.
Ecco, parto da qui. Dalla celebrazione del lutto di ciò che non esiste.
Pensavo di essere più preparata. Ad accettare l'ennesimo spostamento di data, l’ennesimo messaggio che non dice niente.
Nelle ultime settimane ho imparato a osservare la mia oscillazione emotiva, a essere gentile con me stessa ricordandomi che nessuno poteva essere preparato a questi eventi che continuano ad apparire inimmaginabili, o per lo meno non del tutto comprensibili.
Ma dal punto di vista pratico pensavo di avere qualche strumento in più.
Che poi anche questa è una cosa che mi fa parecchio ridere. Capaci di definire con esattezza parametri e riferimenti quando dobbiamo stabilire budget e raggiungere obiettivi nel nostro lavoro. E poi ci dimentichiamo (o non abbiamo il coraggio) di farlo quando si tratta della nostra vita. Come se fosse un progetto secondario, uno a cui potremo sempre pensare tra un po’, come se non ci fosse fretta, come se potessimo aspettare il momento giusto.
Essere confinati in uno spazio limitato, sempre lo stesso, giorno dopo giorno, sembra loro un prezzo che vale la pena di pagare senza pensarci due volte, per realizzare il loro sogno.