Domenica mattina sono uscita a correre.

È ancora un’abitudine, anche se non è esattamente la stessa cosa. Senza gare, senza obiettivi, senza una vera tabella di allenamento, corro poco, ma corro sempre

Un po’ è il bisogno di una costanza di riferimento, un po’ la risposta alla necessità di muovermi ogni giorno, un po’ è il ritmo delle gambe che sembra aiutare anche la mente a fluire, a tornare lucida e pronta al prossimo compito.

A volte, però, non funziona. 

Come domenica mattina, appunto. Nonostante il sole e nonostante un’intera giornata a disposizione davanti a me, che avrebbe dovuto essere la perfetta premessa alla possibilità di concentrarsi solo su un passo dopo l’altro, senza pensieri.

Invece i pensieri c’erano, e belli aggrovigliati tra loro.

Mia madre ha sempre avuto un buon rapporto con la tecnologia. Negli anni '80 era stata scelta (o si era offerta, chissà, in effetti non gliel’ho mai chiesto) per essere tra i primi dell’ufficio a utilizzare un computer. Ho ancora una ricordo di quei manuali voluminosi e scritti troppo fitti, con cui stava imparando a usare il DOS.

Allora più che altro mi divertiva poi poter giocare ai primi videogame, in quella mezza’ora in cui mi doveva tenere in ufficio quando non sapeva dove piazzarmi. Oggi sono molto grata di questa sua dimestichezza - perché se a volte la strapazzo un po’ quando mi dice “il computer ha fatto”, dall’altra vederla che si destreggia così bene tra una chiacchierata via whatsapp con le amiche e un (per me pesantissimo, ma contenta lei contenti tutti) seminario via zoom ha reso senza dubbio meno complicato la trasformazione che abbiamo attraversato negli ultimi dodici mesi.

Alla fine mi viene da dire che si sia dimostrata più adattabile lei di me.

Che, certo, online ci devo stare per lavoro. Ma che in generale mi sento talmente saturata da sottrarmi poi a quello che non sia strettamente necessario di questa che continuo a percepire come una vita surrogata

Di Zoom fatigue si è parlato quasi subito: nel confronto mediato dallo schermo e complicato dai vincoli della linea dati, dobbiamo impegnare uno sforzo aggiuntivo per cogliere (spesso in un quadratino di pochi centimetri di lato) segnali non verbali, espressioni e inflessioni della voce, dobbiamo gestire la dissonanza tra la sensazione di essere insieme con la mente ma non con il corpo.

Se è vero che i clienti che ti arrivano sono una delle prove che la tua comunicazione è autentica e ti rispecchia, mi dico da sola che sono sulla buona strada. La maggior parte delle volte che mi ritrovo a fare una chiacchierata conoscitiva con un nuovo cliente, è come se ci riconoscessimo. Non che siano tutti uguali: ho parlato con donne e uomini, con chi era alla ricerca della prima esperienza di lavoro e con chi di esperienza ne aveva 20 anni, con chi voleva trovare spazio per sé e con chi non aveva idea di cosa voleva fare da grande.

Ma la domanda resta sempre la stessa.

È possibile?

Quella di dieci giorni fa aveva tutte le premesse di  una mattinata perfetta. La luce radente del sole autunnale, l’aria frizzante e i colori delle foglie, le gambe che fanno girare i pedali per andare a lavorare dopo mesi in un posto che non fosse casa. Per andare a parlare di leadership a un gruppo di imprenditrici, per sperimentare finalmente sul campo il modello di Brené Brown che negli ultimi due anni ho studiato e approfondito, su cui mi sono certificata e che ho tradotto per renderlo disponibile a tutti, al di là della barriera linguistica.

Aveva le premesse di una giornata perfetta, invece tutto quello che avevo sentito fino a quel momento era rabbia.

Rabbia mentre spegnevo la sveglia, rabbia mentre correvo nel silenzio della città ancora addormentata, rabbia mentre preparavo il caffè.

Se mi fosse capitato un paio di anni fa, avrei buttato giù. Avrei fatto finta di niente, all’esterno andando avanti come se niente fosse (che gli impegni si rispettano, che sul lavoro non si portano le proprie paturnie, che se tanto non si può risolvere allora non vale nemmeno la pena parlarne), dentro accumulando frustrazione e un groviglio allo stomaco cacciato sempre più nel profondo. 

Non so se sia vero che non esistono più i manuali di istruzioni, in ogni caso io ero tra quelli che non li leggevano nemmeno prima.

Ci sono circostanze però in cui avere un manuale di istruzioni ci piacerebbe molto. Una chiara sequenza di azioni da seguire per avere la garanzia del risultato finale.

Si potrebbe chiamare l’approccio IKEA alla vita: partire da quello che sembra un insieme indifferenziato, seguire i passi indicati e scoprire, con una certa sorpresa, che il risultato finale è quanto meno simile all’oggetto rappresentato in copertina

Nella vita le cose sono un po’ più complicate.

E non è solo una questione di ritrovarsi con un comodino dalle gambe storte (ogni riferimento personale e fotografico non è assolutamente casuale). Quel che è certo è che, se si ha la pazienza di capire come suddividerlo in attività più semplici, anche un risultato che ci appare distante e complesso può diventare raggiungibile.

Nessun metodo ci può dare la certezza che raggiungeremo lo scopo, ma il vantaggio di seguire un processo è quello di avere un sistema di riferimento. Il che è particolarmente utile quando siamo in situazioni di incertezza, o quando abbiamo una battuta d’arresto e perdiamo fiducia e motivazione.

Che vantaggi ha la definizione di un metodo?

Cosa vi aspettate da queste giornate? 

Lo chiedo sempre, quando inizio un percorso di formazione. Le risposte cambiano a seconda dell’azienda, dei ruoli coinvolti, oltre che naturalmente dell’argomento che andremo a trattare. Ultimamente, però, c’è sempre una questione che ritorna. Che si parli di comunicazione, di gestione delle persone o di organizzazione del proprio tempo e della propria agenda.

Come si fa a gestire lo stress?

Che è una domanda diretta, ma allo stesso tempo sfuggente e complicata.

Prima di tutto, perché dipende da quale definizione di stress scegliamo: chi pensa al senso di costrizione della parola latina strictus da cui deriva il termine, vedendone quindi solo il lato negativo, di peso da sopportare e a cui, possibilmente, sfuggire.

Spesso chi offre questa chiave di lettura collega a filo doppio l’idea di stress all'idea stessa di lavoro, visto solo nella sua versione di dovere, di obbligo, a cui sottostare per motivi contingenti ma senza un reale legame con la gratificazione o l’espressione di sé.

Altri sottolineano lo stato di attivazione collegato allo stress, quell’effetto dato dall’adrenalina rilasciata dal sistema nervoso e che ci permette di reagire in modo rapido agli stimoli.

Stress che fa andare veloci, che fa pensare a soluzioni, stress che spinge nella giusta direzione.

"Non sopravvive la specie più forte, ma quella che mostra maggiore capacità di adattamento."

L’avevo letta mille volte, questa frase. Ma solo stavolta mi ha colpito così. Sarà che nelle ultime settimane, ma pure negli ultimi mesi, di capacità di adattamento ne abbiamo dovuta tutti mettere in campo molta più del solito.

Mi sentivo molto brava, per la mia capacità di assestare qualche spallata alla mia comfort zone, per allargarla quel tanto che era necessario. 

Più che altro, probabilmente, sono stata fortunata. Fino a oggi, la storia che raccontavo a me stessa ha tutto sommato funzionato, e anche quando mi è capitato di scoprire che quella che credevo essere una verità chiarissima in realtà era solo il mio punto di vista, dopo il primo stupore sono (spesso) riuscita a integrare la nuova informazione nella mia mappa mentale.

Alla fine, però, forse di capacità di adattamento non ne avevo tanta come pensavo.

Vuoi fare una prova?” Fabiana si affaccia alla finestra cercando qualcuno che passi per la strada “Hey, come ti senti? Tutto bene? Niente ansia?

Io rido, ma so che ha ragione.

Che il fatto che in questo momento io mi senta più nervosa e insicura del solito non è niente di eccezionale. Che i miei sbalzi di umore e le mattine in cui mi sveglio già storta mi accomunano a una percentuale non meglio specificata della popolazione, ma senza dubbio una percentuale alta.

D’altra parte, non c’è da stupirsi.

L’ansia (e non parlo di ansia patologica, che quella di certo non mi compete), lo spettro variegato di preoccupazioni che a volte mandano i pensieri in cortocircuito, è determinata da stress ambientali, e sfido chiunque a sostenere che l’ambiente attuale non sia stressante.

Se ci aggiungiamo che l’ansia è probabilmente una delle emozioni più contagiose che esistano, ecco che la dimensione potenziale del problema assume caratteri più netti.

Che ci possiamo fare, quindi?

È stato un settembre forse complicato, di certo inedito. Non mi ero mai resa conto fino in fondo quanto dessi per scontato che settembre sarebbe arrivato con la sua efficienza a dirmi cosa fare

Invece no, ogni mattina dovevo ripartire dal principio.

Sedermi al computer non perché  avessi qualcosa da fare, ma perché decidevo di fare qualcosa. Ripartire per scelta e non per abitudine, darmi la spinta tutta da sola.

Che, per una libera professionista, dovrebbe essere una cosa abbastanza scontata, lo ammetto. Non ci sono riunioni a cui vieni convocato, o obiettivi che ti vengono assegnati. Ma, una volta che l’attività è stata impostata, di solito ci sono progetti in corso, incontri fissati, risposte da dare, o da ricevere. Stavolta, però, mi mancava questa cornice di riferimento.

E a lungo andare, muoversi senza cornice di riferimento è come procedere senza bussola. Il “confondere il movimento con il risultato”, a cui già di mio sono fin troppo affezionata, rischia infatti di diventare una certezza.