Francesca vorrebbe un po’ di tempo per frequentare qualche corso, per uscire a fare una passeggiata, magari per sdraiarsi sul divano a leggere un libro. O per fissare il soffitto, o addirittura per tenere gli occhi chiusi e non pensare a niente.

Giovanna lavorava in un posto che non le dava né soddisfazione né uno stipendio degno di questo nome. Dell’essere freelance ha accolto con entusiasmo la possibilità di seguire tre progetti che più diversi l’uno dall’altro non si potrebbe. Ma spesso mi scrive a notte fonda, perché quando il tempo di giorno non basta è così facile non dormire per recuperare un po’.

In fondo, io che punto alla 25esimaora non ho nemmeno esagerato.

Sempre più persone si ritrovano a sognare giornate fatte di 48 ore, o anche di più.

Cosa succede a tutto il tempo che abbiamo a disposizione?

L'alba a Cape Muroto, isola di Shikoku. Fermarsi a contemplare la meraviglia

"Come fai a stare sempre giro, non è ancora il momento di fermarsi?”

A volte è una domanda diretta, a volte mi arriva per vie traverse. Dentro, o dietro, ci sono un sacco di storie diverse. Quelle di chi chiede, più che la mia. Chi è affezionato alla sicurezza della propria routine quotidiana e non riesce neppure a immaginare di rimbalzare nella stessa settimana da Trieste a Bologna, da Venezia a Torino. Chi prende l’aereo solo per andare in vacanza, e quindi mescola un pizzico di invidia a un accenno di “beata te che te lo puoi permettere”.

È vero - sono stata in giro, ho dormito ben poco a casa, mi sono goduta la scoperta di città mai viste come la meraviglia di città che mi sembrano più belle ogni volta che ci metto piede. Sono stata a Malta e a Berlino, solo bagaglio a mano e filosofia no frills, ostello, mangiare nei mercatini e arrivare ovunque camminando.

Il primo anno da freelance è stata una costante sperimentazione di contatti e contenuti, per capire cosa sapevo fare, cosa potevo imparare e soprattutto in che direzione volevo continuare a esplorare,

Quest’anno ho iniziato a ridefinire il modo in cui posso e voglio lavorare.

Non credo sia una parola che esiste davvero, ma la prima volta che Manuela l’ha usata non ho potuto che pensare fosse perfetta. Doverismi.

Li conosciamo tutti, anche se magari non li chiamiamo così.

I doverismi non sono costrizioni, che pesano sulle spalle come un giogo sotto cui, a seconda del carattere e del momento, ci divincoliamo per sfuggire o ci incurviamo un po’, per sostenerne meglio il peso. Non sono nemmeno leggi o regole scritte nero su bianco, che se infrante portano delle conseguenze al benessere collettivo o personale.

I doverismi sono molto più subdoli, perché ce li inventiamo noi.

Ci vediamo per un caffè, e Giuliana va dritta al punto:

Tu come lo gestisci, un rifiuto?

Lei, mi dice, piuttosto male. Ci conosciamo da un anno, e tante cose sono cambiate da allora. La scorsa estate era disoccupata e un po’ confusa, oggi ha un bel ruolo nell’area vendite di in un’azienda in crescita e attenta alle proprie persone.

Un commerciale che fatica a gestire il rifiuto, però, non ha vita facile.

Non che per gli altri sia più semplice. Proprio mentre scrivevo questo pezzo anche io ho ricevuto un no che non mi aspettavo. Sono io che ho posto la domanda, e quindi da un punto di vista razionale sapevo che la risposta avrebbe potuto essere negativa. Ma quando si parla di rifiuto, la logica centra ben poco.

In cima all'isola di Kashima per suonare e ascoltare il suono della campana

Sono ormai tornata da quasi due mesi, e le settimane in Giappone sembrano, per certi versi, un ricordo sfumato. D’altra parte credo possano esserci poche cose tanto differenti quanto il ritmo del cammino e la mia vita milanese.

Da un lato giornate in cui il tempo rallenta e si riempie di un gesto che, alla fine, non raggiunge alcuno scopo concreto, riportandoti addirittura all’esatto punto da cui eri partito. Dall’altro un metronomo che scandisce un ritmo che dall’allegro-andante può arrivare senza preavviso al fortissimo, una città in cui il tuo valore si rapporta alla velocità di risultato che riesci a portare.

Qualcosa però, è rimasto nel profondo. Non è semplice spiegarlo, perché raccontare se stessi fa sempre sentire in bilico tra il desiderio di condivisione e il rischio di suonare arroganti. E perché quello che dentro senti con chiarezza sembra annacquarsi in parole che vorresti veder maneggiare con più cura.

La differenza tra quello che faccio, e quello che sono.

Credo che i Giapponesi riescano a inserire uno scusa in ogni frase che pronunciano. Scusa quando devono farti attendere e scusa quando non sanno rispondere alla tua domanda. Ma anche scusa se vi incrociate sulla stessa soglia e dovete decidere chi passa per primo, scusa se alla cassa del supermercato ci sono più di due persone in fila.

Forse non ci avrei fatto così tanto caso se qualche anno fa non avessi letto uno studio sull’utilizzo di questa parola nelle diverse culture e nei diversi contesti: è così che ho iniziato la mia piccola battaglia culturale nei confronti dell’abuso di questa parola

Dire scusa sembra un modo innocuo per iniziare un’email, per introdursi in una conversazione, per sostenere la propria opinione senza sembrare troppo aggressivi. Sembra così innocuo che è diventato un’abitudine di cui non ci rendiamo più conto

E noi donne diciamo scusa un sacco di volte, e troppo spesso lo diciamo a sproposito.

Prendersi cura del tempo - Arequipa Monastero di Santa Catalina

Ci sono giornate che nascono storte. Guardi l’agenda che ti racconta senza esitazioni la lista delle cose da fare. Mentre tu hai solo voglia di perdere tempo.

Di solito quando mi capita inizio a guardarmi intorno e decido che devo fare ordine, pena l’impossibilità di combinare qualsiasi cosa di produttivo. Mai che capiti in un tranquillo sabato pomeriggio, questa frenesia. Di solito è un martedì mattina qualunque, quando invece avrei altro di più urgente a cui pensare. Ma non c’è verso di fare altrimenti: è come se il disordine dello spazio diventasse disordine della mente. Così lascio che il computer aspetti, e metto mano ai libri.

La disposizione dei volumi nelle librerie casalinghe racconta molte cose. Lo trovo uno studio affascinante, come quello dei carrelli del supermercato - a cui non posso fare a meno di dedicarmi quando sono in attesa alla cassa, immaginandomi la vita di chi mi precede in coda.

C’è chi applica ai propri libri un rigoroso ordine alfabetico per autore e chi preferisce un criterio estetico, scegliendo abbinamenti per forma e colore; chi distingue per casa editrice e chi infila semplicemente il libro dove trova posto.

Nella casa minuscola in cui vivo ho libri dappertutto, e se entrasse uno sconosciuto solo osservandoli potrebbe farsi un’idea abbastanza precisa di come sono arrivata fin qui, dove voglio andare, e perché.

Un asinello dietro una grata: è considerato poco intelligente ma se invece fosse solo un diverso modo di capire?

Quando i bambini arrivano a sviluppare un uso autonomo del linguaggio, la prima cosa che vogliono fare è capire quel mondo intorno a loro di cui sanno ben poco.

La chiamano fase dei perché e la mia, a quanto pare, non è ancora finita.

Sono curiosa, cerco di non dare per scontate le cose, anche se ho qualche anno in più ho ancora bisogno di capire. Ho imparato che in una persona del tutto differente puoi scoprire il miglior alleato (altre volte invece continui a non trovare alcun punto di contatto, ma è pur sempre un rischio da correre) e mi godo pienamente la necessità che ho, come consulente, di studiare, approfondire, aggiornarsi.

Passo le mie giornate a comunicare. Scrivo, parlo, preparo presentazioni, vado in aula. Tra domande e risposte, ogni giorno sono circondata di parole. Per lavoro ascolto, ascolto un sacco.

Ma non è detto che questo mi abbia insegnato a capire.

Una bambina balla in una strada di Akihabara a Tokyo: uno sguardo diverso sul futuro

Nella lingua dei Chamacoco, una popolazione india del Paraguay, la negazione si esprime con il futuro. Per dire “non ti amo” si dice “ti amerò”; per dire “non ti pago” si dice “pagherò”. Dunque adesso non ti amo, non ti pago; cioè “ti amerò”, “ti pagherò”, ma domani, sempre domani, dunque mai. (Claudio Magris, La Lettura #375)

Ognuno ha il suo modo per rilassarsi la domenica pomeriggio.

Io leggo il giornale.

Mi piace il gesto di stendere le pagine ampie per cui serve appoggiarsi al tavolo, o allargarsi comodi sul divano. Cerco di superare il disincanto che accompagna la politica, scorro veloce la cronaca, mi soffermo se qualcosa cattura la mia attenzione. Mi concedo quella che potrebbe sembrare piacevole inutilità, e mi immergo finalmente nell’inserto culturale. La domenica lo assaggio solo, per poi tenerne una pagina al mattino mentre faccio colazione, un’altra mentre mi asciugo i capelli. A volte scopro qualcosa di cui non sapevo niente, altre mi guardo intorno come se chi ha scritto un articolo mi stesse spiando e avesse scelto l'argomento proprio per me.

Quella domenica mattina stavo parlando di futuro con mio fratello.

Anzi, no, non è esatto. Più che altro stavamo parlando di mezzi progetti, di idee, di spunti. Quelli che ti passano nella testa ma non sembrano trovare la strada per uscire da lì, e diventare qualcosa di vero.

Il futuro dei Chamacoco, quello che non si realizza mai.