Siamo stati troppo ingenui, su questo siamo tutti d’accordo. Ci siamo scoperti più vulnerabili di quanto credessimo.

Dichiarare a gran voce che ne saremmo usciti migliori, che sarebbe andato tutto bene. Ci credevamo, in quel momento. D’altra parte, da qualunque lato si guardi la situazione, non solo non eravamo preparati, ma forse era impossibile essere preparati, o esserlo del tutto, dato che quello che è successo non era mai accaduto, per lo meno non era mai accaduto nel contesto attuale di velocità dello scambio. Scambio di persone, di idee, di merci. Le prime sono diventate veicolo della diffusione della malattia, le seconde hanno mostrato la fragilità del nostro senso critico, le terze hanno per un po’ scavalcato, in ordine di priorità e di valore, l’immaterialità che sembrava essere ormai l’unico perno dell’economia.

Il cambiamento, però, anche se non era quello che avevamo immaginato, resta un dato di fatto. Un dato di fatto complicato, diciamolo pure. Perché ci costringe ad ammettere quanto poco ci conosciamo, quanto siamo meno… coraggiosi? Coerenti? Promotori di azioni concrete? Disposti a metterci la faccia e l’impegno che servono? Fate voi.

Quanto siamo più fragili e in bilico di quanto volevamo raccontarci.

Io l’agenda la compro a luglio.

Dopo tanti anni in cui impegni e promemoria stavano solo nel calendario elettronico, da quando ho iniziato a lavorare in proprio sono tornata ad avere in borsa anche un’agenda cartacea. Forse perché nella vita da freelance la distinzione tra tempo professionale e tempo personale è ancora più flessibile, e tanto vale allora tenerne traccia in un solo posto. Forse perché, senza la scatola di riferimento data dagli spazi e dai tempi dell’azienda, aprire una pagina e avere uno sguardo su quello che mi aspetta per l’intera settimana ha un che di rassicurante.

Certo, oggi pensare che sia già passata metà di questo anno “in” (inedito, inaspettato, incomprensibile,  indelebile, incerto) di rassicurante ha ben poco, lo ammetto.

Ma la scorsa settimana luglio è arrivato, e parlando con amici e clienti la sensazione comune è una sorta di stupore. Prosegue il dibattito sulla ripresa della scuola,  tra sfiducia e apprensione e indicazioni arrivate in corsa e che ben poco hanno chiarito a chi dovrà metterle in pratica. I fronti pro e anti smartworking portano avanti la loro battaglia, tra chi afferma di non voler tornare mai più in ufficio e chi invece si sente saturato dalla vita online, tra chi vede l’opportunità di una reale evoluzione che faccia tesoro della forzatura degli scorsi mesi e chi, a quanto pare, purtroppo non ha nemmeno capito di cosa si stava veramente parlando.

Per certi versi sembra tutto come prima. Sembra che la nuova normalità stia cercando di farsi strada. 

Dall’altra sembra che la speranza di uscire da questa crisi migliori, o almeno differenti da come ci siamo entrati, stia pericolosamente vacillando.

Eppure nel nostro piccolo, nelle nostre case, nel nostro quotidiano, avevamo iniziato a porci una domanda che dovrebbe essere banale, se mettessimo nel costruire le nostre vite tutto l’impegno progettuale che sappiamo dedicare agli obiettivi professionali.

Per diventare essere umani di professione, di questo momento cosa vogliamo "portare con noi” nel futuro?

Pedalare in mezzo ai girasoli: bellezza sotto casa, la mia ricarica di energia :)

Le mattine in cui fatichi a trovare l’energia per partire le riconosci subito: spegni la sveglia una volta in più, accorci l’allenamento che avevi programmato, ti sembra di muoverti a ritmo ridotto e prima di sederti alla scrivania non sai come sia possibile che siano già le dieci. Ma mercoledì scorso era diverso. Era peggio. Distratta e incapace di stare ferma, mi alzavo e risedevo, saltavo da un’attività all’altra senza finirne nessuna. Finché mi sono arresa. Mi sono sdraiata sul divano e ho chiuso un attimo gli occhi. Mi sono svegliata dopo un’ora, non ricordavo l’ultima volta che era successo

Normalmente mi sarei sentita in colpa, nell’abitudine a spingere ancora, a trovare sempre e comunque l’energia per andare avanti, per arrivare alla meta che mi ero prefissa.

Stavolta, invece, mi sono sentita più che altro sciocca per non essermi fermata prima.

Perché come puoi pensare di andare avanti, se prima non hai verificato di aver riempito il tuo serbatoio di energia?

Ricordo perfettamente la prima volta che ho visto The Matrix. Fino a quel momento il mio incontro con la fantascienza era stato mediato da mio padre, appassionato di classici, che poco più che bambina mi aveva passato la Trilogia della fondazione di Asimov e mi aveva fatto vedere 2001 Odissea nello Spazio. Non stupisce che dopo quelle esperienze - culturalmente elevate ma non certo agevoli come percorso di avvicinamento al genere - avessi lasciato cadere la cosa. The Matrix, però, era stata una folgorazione.

Come ritrovare un pensiero che nemmeno sapevo di avere, ma che era sempre stato in sottofondo.

Pillola rossa o pillola blu, la sicurezza della comfort zone o la verità che si apre fuori dai confini delle abitudini. La realtà come illusione messa a confronto con la comodità di accettare la storia che ci viene raccontata.

A vent’anni tutto è bianco o nero così, era chiaro, mi schieravo tra quelli che non potevano accettare la scatola che limita dalla possibilità di reinventarsi, quella in cui crediamo di muoverci liberamente mentre siamo sospesi, addormentati, senza nemmeno immaginare che ci sono scelte alternative. Oggi non ho cambiato opinione sulla voglia di uscire dalla scatola, ma ho cambiato punto di vista sulla responsabilità di ciò che non vediamo.

Nessuno ce l’ha raccontata, tutt’al più ce la siamo lasciata raccontare, spesso ce la siamo raccontati da soli. 

Nel groviglio di sensazioni di queste giornate, tra paura e solitudine, disorientamento e scelte da fare, preoccupazione e fatica, mi sono resa conto che ce n'è una che fa capolino nella mia testa più spesso di quanto vorrei. Il senso di colpa.

Mi guardo attorno e sembra che tutti siano molto indaffarati. Saranno anche chiusi in casa, ma questo non li trattiene dal seguire corsi, pianificare eventi, immaginare progetti nuovi.

Io invece mi sento ferma, e perciò mi sento in colpa.

Il senso di colpa è una sensazione con cui, anche in circostanze più ordinarie, molti di noi hanno una certa dimestichezza. Ci sentiamo in colpa per le scelte che abbiamo fatto e per quelle che non abbiamo fatto, per le volte che abbiamo mollato troppo presto e per quelle in cui invece abbiamo trascinato una situazione che non funzionava perché non trovavamo il coraggio di mollare il colpo

Non mi stupisco, quindi, di sentirmi così adesso. Soprattutto se ammetto che, e non solo adesso, il problema non è tanto scegliere. Il problema è il bisogno di controllo.

Su quello che, in realtà, non possiamo controllare.

Il 2018 è stato un anno anomalo, per una viaggiatrice come me.

Ho parlato molto di viaggi e cammini, ma ne ho fatti ben pochi. Dovevo ancora metabolizzare il trimestre sabbatico sudamericano, e avviare la nuova attività da libera professionista (con le insicurezze e i dubbi che ne derivano).

Non mi sentivo di partire. Non sapevo se ero pronta, o se me lo meritavo.

Il 2019 invece è stato in continuo movimento.

Se il primo passo del cambiamento è decidere di buttarsi, andando oltre il timore di renderci ridicoli e di non corrispondere alle aspettative esterne che diamo ormai per scontate, il secondo è sfidare la paura di sprecare quello che abbiamo fatto.

Chissà perché ci hanno convinto che per cambiare bisogna per forza tirare una riga e cancellare tutto quello che c'è stato prima.

Mentre per evitare di vagare senza direzione, è essenziale partire proprio da dove sei in questo momento.

Un tema a cui sono tornata più volte leggendo "Travel As Transformation: Conquer the Limits of Culture to Discover Your Own Identity” di Gregory Diehl, un libro che mi ha in egual misura affascinato e infastidito, a metà tra spunti di riflessione che ho trovato interessanti e una certa supponenza che a tratti mi provocava un moto di rifiuto, per cui chiudevo il libro per riprenderlo magari dopo qualche settimana.

Forse non era la sua risposta a infastidirmi, ma la resistenza ad affrontare la domanda che ci stava dietro.

Chi sei davvero?

Con la curva del cambiamento ho a che fare quasi tutti i giorni. Perché è quella che accompagna i percorsi di coaching individuale. Perché è quella che caratterizza i processi di innovazione in azienda. Perché è quella che vivo quando mi prende la vertigine di non capire in quale direzione muovere il prossimo passo, quando mi sembra di aver puntato troppo in alto, quando dubito di essere abbastanza capace, forte, brava per farcela.

Perché anche quando il cambiamento è scelto, e non subìto, non è che tutto vada sempre liscio e secondo le aspettative.

Anzi, non lo fa quasi mai.

Sono un'ottimista, e quando vedo una nuova opportunità mi faccio prendere dalla curiosità di capirne di più. Ma quando sei nel bel mezzo del cambiamento, l’arco che si percorre resta quello: l’entusiasmo iniziale che proietta in scenari da sogno, l’impatto con la consapevolezza che le cose per realizzarsi richiedono spesso più tempo e fatica di quanto volessimo ammettere inizialmente, la tentazione di mollare tutto.

L’inghippo è tutto qui.

Quella sera, stranamente, non avevo ancora spento il telefono. Con la tecnologia ho un duplice rapporto: da un lato la curiosità di capire come funzionano le cose, che mi ha portato spesso trovata a fare da ponte tra chi parla un linguaggio tecnico e chi invece ha un approccio puramente umanistico. Dall’altro credo che ogni strumento sia un’opportunità a disposizione, non un dovere da cui dipendere, per cui tengo ben stretti i miei momenti di detox digitale, sparendo dalla reperibilità costante senza sentirmi minimamente in colpa.

Ma quella sera, appunto, il telefono era ancora acceso. Ho ricevuto un messaggio di lavoro, l'ho letto e mi ha seccato. Per il come, per il cosa, per il quando.

Stavo per rispondere, poi mi sono fermata.

E ho scelto di mettere in pratica un po’ di cose che ho imparato sul feedback.