Ho un problema con il tempo, lo so. Ho la costante pretesa di usarlo fino all'ultima briciola, dimenticando di lasciare spazio per gli imprevisti, o per il riposo. Non ne faccio un dramma, ribalto la mia agenda per far fronte a un ritardo, o a un'opportunità, ma rincorro sempre la 25esimaora, il tempo per fare le cose, per farle qui e subito. Dimenticando che del tempo bisognerebbe prendersi cura, e che a volte basta solo un secondo.

Qualcuno dice che sono coraggiosa, per come mi butto nelle cose. Qualcuno dice che vorrebbe la mia forza di volontà, per come vado avanti a testa bassa. Io dico che è ben più temerario fare un mutuo, che fare un viaggio da sola.

Di cose irreversibili ce ne sono meno di quante pensiamo, ma davanti a un impegno a lungo termine mi viene sempre un pizzico di ansia.

La mia forza è anche la mia debolezza: quella sorta di fanciullesca incoscienza che mi permette a volte di osare senza vedere del tutto i rischi (o di percepirli in modo differente dalle aspettative comuni), è anche curiosità di esplorare tutte le possibilità a disposizione, che mi fa resistere di fronte all’idea di scegliere nettamente a un bivio.

Un po’ ci gioco, e così anche quest'anno ho scelto un progetto da portare avanti ogni giorno per 365 giorni. 

Pensavo di essere una che fa, non una che pianifica.

Per la prima volta mi avevano assegnato un progetto tutto mio, ed era il momento della valutazione di fine anno con il nuovo capo. Avevo sempre avuto una routine ben delineata, e il rapporto con il responsabile era semplice: lui riceveva un compito, lo smistava alla squadra, e ciascuno faceva la sua parte senza troppe domande. Adesso che avevo provato cosa significa doversi dare autonomamente delle priorità, però, mi sentivo in difficoltà. Me l'ero cavata, ma non ero così certa di aver gestito al meglio la situazione. Lui, invece, aveva un’opinione diversa: riteneva che l’organizzazione fosse il mio punto di forza, e che l'azione ne fosse solo la conseguenza.

Ma chi pianifica e chi fa sono davvero mondi contrapposti?

Oltrepo Trail - Trail Running Academy

Ho saltato un’intera stagione, ma da un paio di mesi sono tornata sulle colline dell’Oltrepo Pavese con il mio gruppo.

Il

Mio

Gruppo.

Mi fa un certo effetto scriverlo. Sono un battitore libero, una la cui routine sportiva preferita è quella di uscire in solitaria alle sei di mattina.

Ma il trail è uno sport diverso, rispetto alla corsa su strada.

Certo, anche qui si macinano chilometri, si esce quando fuori è ancora buio, si fa fatica per giustificare il proprio desiderio di carboidrati. Ma qui c’è un senso scanzonato di non prendersi troppo sul serio, forse perché è difficile essere seri quando sei coperto di fango dalla testa ai piedi. Il trail ti rimette in pace con te stesso e con il mondo, forse per la bellezza dei paesaggi che attraversi o forse perché alla fine sei talmente stanco da aver dimenticato perché prima di iniziare eri incazzato, o stressato, o nervoso.

Soprattutto, il trail è uno sport di gruppo in cui vale una delle regole fondamentali della montagna: non si abbandona nessuno, quindi nelle uscite si va al passo del più lento.

Ma come imparare a scegliere meglio, come decidere quanto rischiare?

Villa Pisani Stra

Quando devo scegliere, non ho mezze misure.

Se la questione è importante, spesso mi trascino all’infinito nel dubbio, come se soppesare e sezionare allo sfinimento ogni dettaglio mi permettesse prima o poi di scoprire qualcosa che mi era sfuggito.

D'altra parte una volta che la decisione è presa, chiudo gli occhi e salto. Niente tentativi, niente ripensamenti. Le parole sono importanti e quando arrivo a dire no, oppure sì, volto pagina e non mi chiedo più cosa sarebbe stato.

Vi siete mai chiesti perché il percorso che ci porta a scegliere è così complicato?

A quanto pare è colpa di quella che Dan Gilbert definisce la psicologia del nostro “sé futuro”, cioè l’idealistica convinzione che, in qualche modo, arriverà un momento in cui “diventeremo quello che siamo”.

Ma siamo proprio certi che questo nostro perfetto e solido "sé futuro" esista?

Cosa è importante Alba Lago Maggiore

A. era una ritardataria cronica. Il problema è che era la mia amica del cuore, quella con cui a vent’anni vivi in simbiosi. Ad un certo punto doverla aspettare costantemente aveva iniziato a infastidirmi un po’. Così, una volta, le ho dato un appuntamento anticipandolo volutamente di mezz’ora. Si è offesa da morire, me lo ricordo. Ma io, in fondo, ero altrettanto offesa che lei non mi considerasse abbastanza importante da essere una sua priorità.

Perché cosa esiste di più prezioso del tempo?

Non ho tempo. Quando avrò tempo. Non ho un attimo di respiro. Aspetta un attimo. Non è il momento. Vorrei un momento solo per me.

La verità è duplice.

Kyoto, Gion - Forse

Saranno state le camminate nel bosco o la pila di libri letti nelle scorse settimane, quel che è certo è che a settembre mi sono ritrovata con una serie di idee appuntate su quaderni e fogli volanti - e l’annosa domanda di come ridurre il rischio che rimanessero esattamente dov’erano, fino a diventare tracce sbiadite e poco leggibili (anche grazie alla mia pessima calligrafia), e concludere quindi la loro gloriosa esistenza dritte nel cestino.

Ma perché è così difficile iniziare?

L’inizio è un momento affascinante, che porta con sé il brivido di varcare la soglia per scoprire cosa c’è oltre. Ma forse è proprio questo movimento, raccontato dai due nuclei della parola in (dentro) + ire (andare), che ci fa esitare. Perché l’inizio segna un confine chiaro, da cui non si torna indietro, o si torna indietro diversi, una volta che lo si è oltrepassato. Come essere sul bordo del trampolino, e finalmente decidere di tuffarsi.

Mi sono imbattuta per caso in Francesca Presentini, giovanissima grafica e fumettista toscana, che ha trovato un nome perfetto per il momento (lungo o breve che sia) che precede una decisione: la Comfort zone del Forse.

Direzione e distanza da ushuaia

Se mi concentro sono sicura di riuscire a sentirli ancora, quei rumori. La campanella che suona, i passi che si affrettano su per le scale, le risate in direzione della nuova classe per evitare che resti vuoto solo il banco in prima fila.

Per molti è questo, il vero inizio dell’anno. Il primo giorno di scuola.

In realtà di solito io sono tra quelli che le domande sulla direzione da prendere se le fanno a capodanno: qualche volta stilando la classica lista di buoni propositi (che spesso finiscono troppo presto nel dimenticatoio), lo scorso gennaio con pensieri un po’ diversi, pronta a cominciare non solo un nuovo anno ma soprattutto una nuova vita.

Ma quest’estate un po’ anomala, di ritmi rallentati fuori e dentro, di ricordi da bambina da lasciar andare e specchi in cui guardarsi come fosse la prima volta, è stata prima una stagione di bilancio, poi di rielaborazione, infine di nuova progettazione.

Perché se non è più di moda porsi dubbi esistenziali e assoluti, se cerchi di definire i tuoi prossimi passi prima o poi almeno te lo chiedi - 

Chi sono io, in questo momento?

Troppo tardi per cambiare meridiana orologio

Lo scorso anno, mia madre si è laureata. In teologia. Aveva già una prima laurea in agraria, dopo la quale ha lavorato tutta la vita come ricercatrice. Ma dopo essere andata in pensione, deve aver deciso che non era troppo tardi per fare qualcosa che le andava di fare.

In questi anni spesso l’ho presa un po’ in giro, quando mi diceva che non ci potevamo vedere perché doveva studiare per un esame: mi faceva sorridere vederla prendere così seriamente qualcosa che faceva “solo” per se stessa.

Ebbene, mi sembra il momento di ammetterlo pubblicamente. Mi sbagliavo.

Fare qualcosa per se stessi è probabilmente il motivo migliore per iniziare qualcosa.