Dicono sia “il settembre più settembre che ci sia mai stato”, e tanto per non sbagliare continuo a camminare. 

Sono fortunata.

La verità è che io, quest’anno, non avevo voglia di viaggiare.

Per lo meno rispetto ai miei parametri.

Non avevo voglia di partire da zero, di prendere un volo che mi catapultasse lontano, in un luogo dalla lingua straniera e dalle abitudini sconosciute.

Non è una cosa del tutto anomala, mi era capitato già in passato. Dopo viaggi particolarmente intensi, in cui mi era sembrato di raccogliere talmente tanti stimoli e spunti da provare il bisogno fisico di concedere loro il tempo necessario a sedimentare, depositarsi come la polvere che fluttua alla luce in un mulinello di vento.

Stavolta, però, c’era qualcosa di diverso. Che credo abbia a che fare con il viaggio da sola, e con il viaggio lento.

Ogni volta che Martina apre bocca, non riesco a trattenere un sorriso.

Alta e bionda come nell'immaginario solo le nordiche, dopo tanti anni mescola nel suo accento e nelle storie che racconta i suoni della lingua madre con l'inflessione umbra, in un'amalgama improbabile quanto accogliente. Si è svegliata apposta per me, come ieri sera è rimasta per prepararmi la cena. L'Angoletto vive dell'imprevedibile flusso dei turisti che arrivano a Pale: gli appassionati di arrampicata che affrontano le pareti di roccia verticale, le famiglie che passano una domenica al fresco delle cascate del Menotre. Una sera si può fare mezzanotte, la successiva ci sono solo io. E come ci è finita, Martina, dalla Danimarca all'Umbria? "L'ho trovato 30 anni fa, questo gioiello", mi dice.

Il gioiello in questione è Carlo, di cui ieri ho visto poco più della testa di ricci ormai quasi del tutto grigi e i gesti un po' impacciati con cui mi lasciava alle cure della compagna. Sono a Pale da cinque anni, in qualche modo è stato un ritorno, i nonni di Carlo possedevano uno dei numerosi mulini che fino a inizio Novecento sfruttavano le acque del fiume. Adesso lui cucina, lei segue clienti e organizzazione, quando arriva qualcuno che decide di fermarsi per la notte tira fuori un piumone, che sa che nella notte il vento si alza.

Ieri mi ha consigliato di andare fino alla piazzetta da cui quando scende la sera si vede l'eremo illuminato, stamattina quando le chiedo un timbro per la credenziale prende la penna e mi disegna i motivi per cui questo posto l'ha chiamata: la montagna con i suoi colori che cambiano con le stagioni, l'acqua che scorre a formare quelle cascate che sembrano risate fresche, la strada che porta sempre nuovi incontri e nuove storie.

È il primo giorno di marcia sul Cammino Francescano della Marca.

E Martina è la conferma della sensazione che, a quanto pare, stavolta l'identità e la voce che sto cercando la troverò avvicinandomi, e ascoltando le storie che incontrerò.

Mentre scrivo non sto ancora camminando, ma mi sto preparando a camminare, che per la mia testa è quasi lo stesso.

Negli anni il gesto è diventato così naturale da azzerare qualsiasi dubbio o domanda: riempire lo zaino per una settimana sui sentieri non mi sembra così diverso dal prendere la borsa quando esco al mattino, e immergermi nel silenzio dei boschi mi fa sentire più a mio agio che affrontare il traffico cittadino.

Non è così per tutti, me ne rendo conto. La scorsa settimana, avvertendo un cliente che non sarei stata disponibile per una decina di giorni per la mia annuale vacanza in cammino, ho sentito il consueto momento di incredulità mista a perplessità.

Cosa spinge una donna apparentemente normale, con un lavoro e una casa e una vita, a scegliere volontariamente, anno dopo anno, di dedicare le proprie vacanze ad avanzare lentamente in luoghi remoti, con polvere e sudore come compagni?

Io sono quella che si annoia.

Quella che quando le cose vanno in automatico, allora è il momento di provare qualcosa di diverso. Quella che alza la mano quando c’è da seguire un nuovo progetto, ma quando serve la costanza di monitorare il processo lascia volentieri il posto a un altro. Quella che a un certo punto ha deciso di cambiare lavoro perché stava troppo bene, mentre un posto dove “c’è da fare tutto” sembrava la prospettiva più attraente che potesse esistere.

Ricordo ancora un giorno di qualche anno fa, ferma in coda nel traffico - avevo corso qualche maratona, scoperto da poco il trail running, pensavo che il triathlon fosse un po’ troppo ma, magari, il duathlon di corsa e bicicletta… E, a un tratto, mi sono fermata a riflettere su questo mio bisogno di provare, cercare, sperimentare.

Non sarebbe più sensato focalizzare le energie in una sola direzione, scegliere cosa voglio in modo sequenziale, e cercare di farlo davvero bene?

Non lo so.

"Camminano le monache nel chiostro: vanno e vengono, avranno impegni da svolgere, luoghi da raggiungere… come te, i tuoi amici, gli uomini che incontri. Eppure è un camminare diverso, perché tu hai una meta da raggiungere, e poi ne avrai altre, e altre… Le mie sorelle e io siamo già nella meta della nostra vita.”

Da inizio anno ho ripreso a leggere La Via dell’Artista, libro della scrittrice e sceneggiatrice Julia Cameron che parte dall’assunto che essere creativi non sia un talento concesso solo ad alcuni, o un capriccio che la maggior parte di noi deve mettere da parte per diventare un adulto serio e responsabile ma, al contrario, la naturale inclinazione di ogni essere umano, un dono che riceviamo e che saremmo irresponsabili ed egoisti a non mettere a disposizione del mondo.

La prima volta che ho letto questo libro-manuale, e che ho applicato il metodo che propone per “sbloccarci” dal nostro status di resistenza anti-creativa, sono successe almeno un paio di rivoluzioni. 

Ogni lungo viaggio inizia con il primo passo.

Pare lo abbia detto un paio di migliaia di anni fa il filosofo cinese Laozi,  che nel saggio Tao Te Ching raccolse i punti fondamentali della sua dottrina, il taoismo. D’altra parte, Tao in cinese significa proprio via, cammino,  indicando cioè quel percorso di naturale equilibrio che, se seguito, ci porterebbe a sentirci e agire in piena armonia.

Che sia un piccolo cambiamento o quella che ci appare un’impresa, tutto parte da quel momento che prende il pensiero e lo trasforma in un primo passo.

Ma allora perché tante volte lo rimandiamo, questo primo passo?

La Via del Volto Santo, da Pontremoli a Lucca attraverso Lunigiana e Garfagnana. Qui, Piazza al Serchio

La mia Via del Volto Santo, a dirla tutta, inizia ben prima di muovere il primo passo da Pontremoli.

Nell’immaginazione lo aveva fatto quattro anni fa, quando l'avevo sentita nominare per la prima volta entrando nel Duomo di Lucca dove, appunto, è custodito il Volto Santo, Cristo ligneo da cui questo cammino prende il nome.

Il secondo tassello lo avevo messo verso la fine della Via degli Abati, in cima al crinale che mi avrebbe dato accesso alla Val di Magra, in una telefonata per chiedere consigli e suggerimenti su questo cammino ancora poco frequentato.

Perché se conosci qualcuno che di cammino ne sa più di te, puoi essere sicura che riceverai la dritta che ti serve. "Ho preallertato il mio uomo a Pontremoli che potresti arrivare, se hai bisogno chiamalo".

E io chiamo. 

Camminare lungo la Via degli Abati, cinque Valli attraverso gli Appennini da Pavia a Pontremoli

La guida alla Via degli Abati l'avevo comprata più di un anno fa. Mi aggiravo tra gli stand del Salone del Libro di Torino, dove ero finita per un progetto in cui mi ero lasciata coinvolgere con entusiasmo ma che si iniziava a capire che non avrebbe portato lontano. Di buono, però, questo progetto improbabile aveva portato l’opportunità di trovarmi lì, a fare avanti e indietro tra le corsie di libri di ogni genere. Avevo superato rapidamente la zona bambini, ignorato i fantasy, resistito ai libri di fotografie che poi non sai dove mettere. E mi ero riempita la borsa di guide di cammino.

Sarà che quell'idea mi era proprio rimasta in testa.

Scegliere un percorso in cui puoi partire direttamente dalla porta di casa, chiudendo la porta dietro di te per iniziare a camminare.

Ci sono città che sembrano immediatamente raccontarci un paesaggio interiore che nemmeno conoscevamo. Ho messo piede a New York per la prima volta meno di due mesi dopo la laurea. Era una preistoria senza rete e senza l’ubiquità delle immagini condivise, ero una viaggiatrice impacciata al suo primo volo intercontinentale - ma mi è sembrato di riconoscerla subito, come se aspettasse proprio me. Sono arrivata a Santiago del Cile con quasi il doppio degli anni e uno zaino molto più leggero, e dopo pochi passi mi pareva che la città mi avesse già abbracciato, invitandomi a fermarmi per conoscerci meglio.

Berlino la corteggiavo da sempre, prima con negli occhi quelle immagini di gioia pura della libertà, poi immaginando che ci sarei stata per correre la sua maratona, una delle più famose e veloci al mondo. 

Invece ho scelto un weekend a caso, ho comprato un volo low cost, e sono partita.