Qualche giorno fa, scherzando con un amico, affermavo che sono un po' ingegnere dentro, e quasi per niente fuori. Una definizione che cercava di racchiudere la mia parte iper-razionale e quella un po' ingenua, quella che struttura tabelle excel e quella che prepara lo zaino, quella che vive nella mente e quella che è sempre curiosa di capire qualcosa in più delle proprie emozioni.

Racconto spesso che, quando ho iniziato a prestare più attenzione a quello che provavo, la prima sorpresa è stata rendermi conto di quanto forti potessero essere le sensazioni fisiche che si accompagnavano alle differenti emozioni. Non che prima non ci fossero, ma non ci avevo mai badato più di tanto. Le avevo zittite, o con la grazia che mi è propria ero andata avanti come un caterpillar facendo finta che non esistessero.

La seconda sorpresa era che, pur con tutta la mia passione per le parole, le emozioni proprio non le sapevo dire.

[questo è un post a quattro mani, nato da una frase condivisa qualche giorno fa da Eleonora che mi ha particolarmente colpito. Abbiamo iniziato a parlare, a riflettere sul concetto di prospettiva, a scrivere. Ecco quello che ne è venuto fuori]

"Quando Golia si mosse contro gli Israeliti, tutti i soldati pensarono: ‘È così grande che non potremo mai vincerlo’.
Ma Davide guardò il gigante e disse: ’ È così grande che non posso mancare il bersaglio”.
(Russ Johnston)

[L’una, ovvero io] Penso spesso alla prospettiva. Perché sono una viaggiatrice, perché sono una scrittrice, perché sono una fotografa.

Ci ho sempre pensato, in realtà, perché tutto il mio percorso professionale è cresciuto nelle Risorse Umane, il che per me significa lavorare con le persone e soprattuto *per* le persone - quindi non dare per scontato il mio punto di vista ma, al contrario, mettermi sempre in discussione, cercando di comprendere il comportamento degli interlocutori sulla base del loro contesto, del loro vissuto, della loro percezione.

Mi affascina osservare, osservarmi. Scoprire che la prospettiva ci permette di interpretare quello che vediamo quando arriviamo dall’altra parte del mondo, ma che a volte è ancora più interessante quando l’applichiamo nel quotidiano.

Ecco, probabilmente non immaginavo di trovarmi a riflettere di prospettiva da qui, seduta al tavolo della cucina, chiusa (doverosamente) in casa come tutto il resto d’Italia.

Mi stavo a malapena riprendendo dallo shock di veder festeggiare il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino e, subito dopo, da quello di rendermi conto che il mio precedente viaggio in Australia era “diventato maggiorenne”, che mi sono imbattuta in un post dal titolo “It’s 2020 and you’re in the future.

Senza alcuna pietà, l'autore mi ricordava che l’uscita di film come Jurassic Park Forrest Gump è più vicina all’allunaggio che al presente, che chi ha almeno 35 anni è più vicino al 1940 che a oggi, che chi nascerà quest'anno ha buone probabilità di arrivare a vedere il prossimo, di secolo.

Solo un attimo fa questo 2020 ci sembrava un futuro così lontano, ma cosa è rimasto di quello che ce ne immaginavamo?

Skyline di Brisbane con l'iconica scritta illuminata dal sole estivo

Poco prima di partire per l'Australia, appena prima di Natale, ho fatto un colloquio di lavoro. Un progetto interessante, di quelli a cui avevo sempre immaginato un giorno di poter lavorare. Una sfida, la possibilità di prendere quello che ho imparato e usarlo per costruire qualcosa da zero, la mia costante ricerca di avere un impatto concreto e visibile.

Una bella tentazione, dove però si fronteggiano due aspetti essenziali della mia valutazione delle scelte di vita.

Tempo, denaro.

La paura di non averne abbastanza, la sensazione che si volatilizzino senza che nemmeno ce ne rendiamo conto.

Esistono due temi che, combinati, siano più universali? 

“Spero sia stata una splendida giornata”, diceva il messaggio di Daniela. Stavo per rispondere che, in realtà, ero un po’ triste. Poi ci ho pensato meglio, e ho realizzato che triste non era la parola che descriveva il miscuglio di emozioni che avevo in quel momento nella pancia.

Mi sentivo malinconica, pensierosa, forse un po’ delusa. Non triste.

D’altra parte il linguaggio che servirebbe per raccontare le nostre emozioni sembra essere una lingua straniera che non conosciamo.

E, d’altra parte, nessuno ce l’ha mai insegnata davvero.

Con la curva del cambiamento ho a che fare quasi tutti i giorni. Perché è quella che accompagna i percorsi di coaching individuale. Perché è quella che caratterizza i processi di innovazione in azienda. Perché è quella che vivo quando mi prende la vertigine di non capire in quale direzione muovere il prossimo passo, quando mi sembra di aver puntato troppo in alto, quando dubito di essere abbastanza capace, forte, brava per farcela.

Perché anche quando il cambiamento è scelto, e non subìto, non è che tutto vada sempre liscio e secondo le aspettative.

Anzi, non lo fa quasi mai.

Sono un'ottimista, e quando vedo una nuova opportunità mi faccio prendere dalla curiosità di capirne di più. Ma quando sei nel bel mezzo del cambiamento, l’arco che si percorre resta quello: l’entusiasmo iniziale che proietta in scenari da sogno, l’impatto con la consapevolezza che le cose per realizzarsi richiedono spesso più tempo e fatica di quanto volessimo ammettere inizialmente, la tentazione di mollare tutto.

L’inghippo è tutto qui.

Non credo sia una parola che esiste davvero, ma la prima volta che Manuela l’ha usata non ho potuto che pensare fosse perfetta. Doverismi.

Li conosciamo tutti, anche se magari non li chiamiamo così.

I doverismi non sono costrizioni, che pesano sulle spalle come un giogo sotto cui, a seconda del carattere e del momento, ci divincoliamo per sfuggire o ci incurviamo un po’, per sostenerne meglio il peso. Non sono nemmeno leggi o regole scritte nero su bianco, che se infrante portano delle conseguenze al benessere collettivo o personale.

I doverismi sono molto più subdoli, perché ce li inventiamo noi.

Ci vediamo per un caffè, e Giuliana va dritta al punto:

Tu come lo gestisci, un rifiuto?

Lei, mi dice, piuttosto male. Ci conosciamo da un anno, e tante cose sono cambiate da allora. La scorsa estate era disoccupata e un po’ confusa, oggi ha un bel ruolo nell’area vendite di in un’azienda in crescita e attenta alle proprie persone.

Un commerciale che fatica a gestire il rifiuto, però, non ha vita facile.

Non che per gli altri sia più semplice. Proprio mentre scrivevo questo pezzo anche io ho ricevuto un no che non mi aspettavo. Sono io che ho posto la domanda, e quindi da un punto di vista razionale sapevo che la risposta avrebbe potuto essere negativa. Ma quando si parla di rifiuto, la logica centra ben poco.

Just say no - come dire di no

Maggio è stato una giostra vorticante che mi sembrava di non poter fermare. Mi sono fatta travolgere dall’entusiasmo dei progetti e delle idee e ho finito col sentirmi sopraffatta da questo accumulo stimolante ma sempre più difficile da tenere in equilibrio.

Così ho messo tutto in pausa per un paio di giorni per riflettere su cosa voglio fare nella seconda parte dell’anno. Ho raccolto le idee sui prossimi progetti e ho cercato di capire quanto tempo e quali risorse mi potranno servire per realizzarli. E ho capito che devo iniziare a dire qualche no, per tornare a respirare e per avvicinarmi ancora un passo alla persona che vorrei essere.