Al liceo la fisica mi sembrava una grande fregatura. Alla prima lezione mi avevano illuso che in quelle formule avrei capito il funzionamento del mondo, alla seconda già mi dicevano che però dovevo considerare un sistema ideale, in cui punti senza peso e senza dimensioni si muovevano in uno spazio senza aria e senza gravità. Un interessante esercizio teorico, ma io volevo capire come funzionavano davvero le cose.

Di quelle formule ricordo ben poco, ma in questi giorni ogni tanto ci penso.

Per settimane ho rallentato e rallentato, e adesso cavoli se la sento, l’inerzia che rende difficile riprendere il movimento.

Principio d’inerzia: un corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a modificare tale stato.

Mi sento proprio così. Magari non ferma, ma certo frenata. Come se ogni azione richiedesse una quantità di energia superiore al consueto. Un'energia che fatico a ritrovare.

Ormai ci è chiaro che la forza di volontà porta solo fino a un certo punto, se dietro non c'è un forte perché. Quando ho deciso di lasciare il ruolo in azienda, ma mia motivazione era piuttosto evidente. Cercavo libertà di movimento. Intesa in senso fisico, nella scelta del quando e del dove, del tempo e dello spazio da dedicare al lavoro. Ma, forse ancora di più, intesa come libertà di pensiero, di poter immaginare qualcosa di mio, di costruirlo da zero, di sviluppare progetti per esprimere le mie idee, il  mio punto di vista, la mia creatività

Volevo creare qualcosa che non esisteva, vedere l'impatto che potevo portare attorno a me, il cambiamento a cui potevo contribuire.

Era la prima volta che pensavo seriamente a me stessa come un progetto. Che necessita del giusto tempo, della giusta prospettiva. Come in un viaggio ho cercato di studiare in anticipo il paesaggio in cui mi sarei mossa, per essere preparata senza irrigidirmi in un itinerario troppo stringente, pronta a rimboccarmi le maniche per affrontare gli imprevisti.

Avevo previsto l'entusiasmo e gli ostacoli, le vittorie e le battute di arresto. Credevo che la paura sarebbe stata bilanciata dalla felicità di esprimersi, dall’orgoglio di indirizzare la propria strada, seppur accidentata.

Tanto per cambiare, l’avevo fatta un po’ troppo facile, e mi ero dimenticata qualche pezzo.

Non avevo messo in conto che più che aiutare a superare la paura, molto spesso la creatività è lei stessa fonte di paura.

Ci sono parole che si sentono ripetere così spesso che crediamo di saperle decodificare perfettamente. In realtà, più probabilmente, il risultato finale di questo uso ripetuto e insistito è che hanno perso gran parte del loro significato.

Leadership, motivazione, fiducia.

Chissà se le ultime settimane di forzata accelerazione in direzione del lavoro da casa porteranno qualche ragionamento più strutturato in merito. Una riflessione che si spinga davvero in direzione di un approccio di smart working, in cui le aziende cioè vadano a sviluppare competenze e una cultura aziendale che supportino queste caratteristiche.

Sono anni che se ne parla. Fornire strumenti e dare spazio ai propri dipendenti perché si sentano maggiormente coinvolti e proattivi. Ma secondo gli studi statistici di Gallup, società che opera negli Stati Uniti da quasi un secolo raccogliendo e analizzando l’opinione pubblica sui temi più svariati, il livello di engagement, a voler essere ottimisti, continua a restare bassino - seppur in leggero aumento dagli anni precedenti, attestandosi al 34%.

Il coinvolgimento, però, è uno degli elementi predittivi più affidabili dei risultati di performance aziendali - quando un dipendente si sente parte del team, comprende con chiarezza il suo ruolo, si sente libero di esprimere un’opinione o un’idea anche (o soprattutto) se offre una prospettiva diversa, ecco che allora la probabilità che metta a disposizione tutto il suo impegno e le sue competenze cresce in modo statisticamente significativo.

La cultura aziendale è anche questo, o forse parte proprio da qui.

A due mesi dall'inizio dell'emergenza, e dopo cinquanta giorni di clausura, credo di non poter più rimandare. Mi sono fermata, ho atteso indicazioni, come se mi aspettassi che le risposte potessero arrivare da fuori. Mi viene in mente la mia prima maratona, quando al trentacinquesimo chilometro mi ero seduta per terra sperando che qualcuno mi venisse a prendere. Non era arrivato nessuno, e alla fine mi ero rialzata e avevo fino la corsa. Credo di dover fare anche questa volta così.

Sono arrivata al design thinking attraverso molte strade e, all’inizio, senza nemmeno sapere veramente di esserci arrivata.

Nell’estate del 2009 ero a Copenaghen a trovare la mia amica Nunzia. Io ero finita lì perché, come si sa, per me ogni scusa per scoprire una nuova città è buona.

Lei era lì per frequentare il Master in Interaction Design, che per me era un nome che suonava bene ma ben poco comprensibile, dato che il design thinking era stato codificato a Stanford solo una decina di anni prima, e in Italia se ne iniziava a malapena a parlare, e solo in contesti legati in qualche modo al design tout court.

Poi me ne sono quasi dimenticata. 

Qualche giorno fa, scherzando con un amico, affermavo che sono un po' ingegnere dentro, e quasi per niente fuori. Una definizione che cercava di racchiudere la mia parte iper-razionale e quella un po' ingenua, quella che struttura tabelle excel e quella che prepara lo zaino, quella che vive nella mente e quella che è sempre curiosa di capire qualcosa in più delle proprie emozioni.

Racconto spesso che, quando ho iniziato a prestare più attenzione a quello che provavo, la prima sorpresa è stata rendermi conto di quanto forti potessero essere le sensazioni fisiche che si accompagnavano alle differenti emozioni. Non che prima non ci fossero, ma non ci avevo mai badato più di tanto. Le avevo zittite, o con la grazia che mi è propria ero andata avanti come un caterpillar facendo finta che non esistessero.

La seconda sorpresa era che, pur con tutta la mia passione per le parole, le emozioni proprio non le sapevo dire.

La mia reazione di fronte all'imprevisto, che è spesso quella di buttarmi e poi vedere come va, non è coraggio. Se dovessi spiegarla, direi piuttosto che è un po’ caso, un po’ istinto.

Quell’istinto che quando mi sento costretta mi fa divincolare, perché dentro a confini troppo stretti non ci so stare, e allora lì il ragionamento c’entra poco, non mi chiedo se avrebbe più senso fermarmi un istante e scegliere la strategia migliore, non mi preoccupo se muovendomi rischio di farmi male.

Perché la verità è che quando è il momento di cambiare, soprattutto se siamo costretti a cambiare, spesso lasciamo che sia la fretta a decidere.

Dimenticando che nel cambiamento non dobbiamo per forza essere soli, ma possiamo scegliere chi avere accanto.

"Camminano le monache nel chiostro: vanno e vengono, avranno impegni da svolgere, luoghi da raggiungere… come te, i tuoi amici, gli uomini che incontri. Eppure è un camminare diverso, perché tu hai una meta da raggiungere, e poi ne avrai altre, e altre… Le mie sorelle e io siamo già nella meta della nostra vita.”

Da inizio anno ho ripreso a leggere La Via dell’Artista, libro della scrittrice e sceneggiatrice Julia Cameron che parte dall’assunto che essere creativi non sia un talento concesso solo ad alcuni, o un capriccio che la maggior parte di noi deve mettere da parte per diventare un adulto serio e responsabile ma, al contrario, la naturale inclinazione di ogni essere umano, un dono che riceviamo e che saremmo irresponsabili ed egoisti a non mettere a disposizione del mondo.

La prima volta che ho letto questo libro-manuale, e che ho applicato il metodo che propone per “sbloccarci” dal nostro status di resistenza anti-creativa, sono successe almeno un paio di rivoluzioni. 

Mi stavo a malapena riprendendo dallo shock di veder festeggiare il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino e, subito dopo, da quello di rendermi conto che il mio precedente viaggio in Australia era “diventato maggiorenne”, che mi sono imbattuta in un post dal titolo “It’s 2020 and you’re in the future.

Senza alcuna pietà, l'autore mi ricordava che l’uscita di film come Jurassic Park Forrest Gump è più vicina all’allunaggio che al presente, che chi ha almeno 35 anni è più vicino al 1940 che a oggi, che chi nascerà quest'anno ha buone probabilità di arrivare a vedere il prossimo, di secolo.

Solo un attimo fa questo 2020 ci sembrava un futuro così lontano, ma cosa è rimasto di quello che ce ne immaginavamo?

Era un anno che non tornavo nella casa di famiglia, appena fuori Trento. E dalla volta precedente erano passati almeno vent’anni. Non ho molti ricordi legati alle mie estati d’infanzia, ma entrare nella stanza dal pavimento di assi di legno, su cui veglia da forse un secolo la cucina economica smaltata di bianco, era stato un tuffo in una mappa del passato, sulla quale ogni segno ritrovava un senso: il tavolo massiccio su cui mia nonna stendeva sottile la pasta dello strudel , il davanzale nella nicchia profonda dove mi sedevo a leggere guardando verso il bosco.

Svuotare una casa è un passaggio di grande fatica emotiva, ma forse non ce ne rendiamo conto finché non ci troviamo dentro. Che poi in realtà lì io mi sentivo più che altro un osservatore: avevo messo subito in chiaro che non intendevo portare via niente (e cosa volete che ci stia, nella mia casa lillipuziana?), e leggere le pigne di cartoline e guardare tra i libri di inizio secolo mi faceva più l’effetto di curiosità da mercatino dell’usato che di qualcosa a cui appartenevo.

Eccezion fatta per l’atlante del bisnonno, naturalmente.