Come mettere “al lavoro” il design thinking

A due mesi dall’inizio dell’emergenza, e dopo cinquanta giorni di clausura, credo di non poter più rimandare. Mi sono fermata, ho atteso indicazioni, come se mi aspettassi che le risposte potessero arrivare da fuori. Mi viene in mente la mia prima maratona, quando al trentacinquesimo chilometro mi ero seduta per terra sperando che qualcuno mi venisse a prendere. Non era arrivato nessuno, e alla fine mi ero rialzata e avevo fino la corsa. Credo di dover fare anche questa volta così.

Sono arrivata al design thinking attraverso molte strade e, all’inizio, senza nemmeno sapere veramente di esserci arrivata.

Nell’estate del 2009 ero a Copenaghen a trovare la mia amica Nunzia. Io ero finita lì perché, come si sa, per me ogni scusa per scoprire una nuova città è buona.

Lei era lì per frequentare il Master in Interaction Design, che per me era un nome che suonava bene ma ben poco comprensibile, dato che il design thinking era stato codificato a Stanford solo una decina di anni prima, e in Italia se ne iniziava a malapena a parlare, e solo in contesti legati in qualche modo al design tout court.

Poi me ne sono quasi dimenticata. 

Finché 6 anni dopo, a una svendita di libri usati, mi sono portata a casa un volume intitolato Business Model Generation, di un certo Alexander Osterwalder.

In realtà sul momento non saprei nemmeno dire perché lo avevo preso, dato che avevo cambiato lavoro da meno di due anni, ed ero ben contenta dello spazio di manovra che mi era stato dato dicendomi “Qui in termini di processi HR c’è da fare tutto, ci pensi tu?

Quando ho iniziato la mia avventura da apprendista freelance e ho ripreso in mano quel libro, ho scoperto che Osterwalder è (solo!) colui che, con il suo team, ha creato il Business Model Canvas – un metodo che mescola rigore e creatività, che coinvolge chi si basa sulla logica così come chi ha sempre l’intuizione in più, che stimola a far funzionare al meglio i due emisferi del cervello.

Insomma, avevo capito che il design thinking faceva per me.

Poi ho scoperto che a Stanford erano andati oltre. Bill Burnett e Dave Evans, l’uno Direttore e l’altro Docente del programma di Product Design, avevano applicato gli stessi principi di immaginazione e sperimentazione alla costruzione della nostra vita: era nato il Life Design Thinking, che era subito diventato il corso non-tecnico più popolare dell’università.

Da lì ho studiato, sperimentato su me stessa, costruito e proposto esercizi e attività di team per mettere in pratica quella “radical collaboration” che permette di avanzare nella creazione di quello che (ancora) non esiste.

E, quando qualche settimana fa ho saputo che sarebbe uscito un secondo libro che applica il design thinking alla creazione di una vita lavorativa su misura – l’ho preso, l’ho letto in due giorni, e oggi ve lo racconto.

Applicare il design thinking alla vita significa fare una delle cose allo stesso tempo più ovvie e difficili che si possano immaginare: vedere la propria vita come un progetto.

Ovvio perché la nostra vita dovrebbe essere il progetto, quello più importante a cui dedicarci. Difficile perché ancor prima di iniziare ci sentiamo sopraffatti dalla paura di sbagliare nella cosa più importante che ci sia.

Designing Your Work Life ci aiuta allora da diversi punti di vista: focalizza la nostra azione su un tema specifico in cui il cambiamento può avere avere un impatto visibile e concreto in tempi rapidi (e lo sappiamo che alla fine Pavlov aveva ragione, e la storia del rinforzo positivo non va presa sottogamba)

E chi non ha mai incontrato qualcuno che non veda qualche punto di miglioramento nel proprio lavoro?

Anche solo facendo un rapido conto, se consideriamo che lavoreremo per (almeno) 40 ore a settimana per (circa) 48 settimane all’anno per (non meno di) 40 anni, capire come rendere più interessante il lavoro che facciamo o come spostarci in un ruolo che ci soddisfi maggiormente è un argomento che abbraccia un pubblico decisamente ampio.

La cosa che mi è piaciuta di più di questo libro? Sicuramente la sua concretezza.

La parola design ci fa spesso pensare a oggetti belli ma non sempre funzionali, mentre il design thinking è un processo human centered, un design che mette al centro la persona e cerca quindi la soluzione a partire dalle sue esigenze. Se aggiungiamo che in questo caso il designer del nostro lavoro siamo noi in prima persona, la comprensione del bisogno dovrebbe essere (quasi) garantita, o per lo meno possiamo andare a punzecchiare il committente per ricevere indicazioni chiare e coerenti…

Designing your work life è concreto perché ci ricorda che il momento migliore per affrontare un problema di lavoro è quando il problema non esiste ancora. Ma allo stesso tempo, sapendo che quasi sempre decidiamo invece di affrontare i problemi solo quando ci sono, e sono diventanti anzi un macigno da portare o un ostacolo che sembra ostruire ogni via, ci propone come

  • riformulare la situazione,

non proponendo di cambiare in modo superficiale e “cosmetico” quello che diciamo, ma con strumenti reali che ci mostrano opportunità e prospettive differenti, da esplorare e sperimentare;

  • sbloccarci quando ci sembra di non avere opzioni di uscita,

aiutandoci a distinguere quella parte di contesto che è effettivamente inamovibile dalle situazioni su cui possiamo agire;

  • allenarci a guardare sempre con sguardo critico alle circostanze,

così da imparare poco alla volta a non trovarci più bloccati, ad anticipare i rallentamenti, a migliorare anche quello che va già bene.

Designing Your Work Life mi è piaciuto anche perché ribadisce un punto di vista essenziale per non trasformare l’investimento su noi stessi nell’ennesima corsa a ottenere un risultato.

Un problema ben definito è già risolto a metà”.

Continuare a osservarci, agire e reagire, mettere in discussione i blocchi e i vincoli che ci frenano, verificandone l’effettiva corrispondenza alla realtà del momento, lasciando andare quelli che appartengono al passato, senza anticipare preoccupazioni per un ipotetico futuro.

Scegliere il proprio successo, inventarlo ancora e ancora, via via che cresciamo come esseri umani.

Per approfondire, il 13 maggio dalle 10.30 torno con un workshop di approfondimento sul tema del Life Design, ovvero come applicare il design thinking alla costruzione dei propri obiettivi. Lavoreremo insieme su spunti e strumenti per applicare questo metodo, in un momento in cui tutto è cambiato e i punti di riferimento sono stati messi (a dir poco) in discussione, nel

  • Ricalibrare la tua bussola
  • Preparati a esplorare
  • Scegliere e costruire la tua strada

Il prezzo di questo worskhop è di 40€ a persona, il 15% andrà alla Protezione Civile per dare un piccolo contributo a questo momento. Questo il link per iscriversi, se invece hai domande o curiosità scrivimi direttamente!]

Laura Cerioli
laura.cerioli@yahoo.it

People Partner | HR Transformation | Leadership Development. Lavoro a supporto di aziende in crescita, in quella delicata fase di passaggio che richiede di rivedere, ottimizzare e sistematizzare i processi interni dedicati alla gestione e allo sviluppo delle persone.

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