Cosa c’è al di là della mappa?
24 Dicembre 2019
Era un anno che non tornavo nella casa di famiglia, appena fuori Trento. E dalla volta precedente erano passati almeno vent’anni. Non ho molti ricordi legati alle mie estati d’infanzia, ma entrare nella stanza dal pavimento di assi di legno, su cui veglia da forse un secolo la cucina economica smaltata di bianco, era stato un tuffo in una mappa del passato, sulla quale ogni segno ritrovava un senso: il tavolo massiccio su cui mia nonna stendeva sottile la pasta dello strudel , il davanzale nella nicchia profonda dove mi sedevo a leggere guardando verso il bosco.
Svuotare una casa è un passaggio di grande fatica emotiva, ma forse non ce ne rendiamo conto finché non ci troviamo dentro. Che poi in realtà lì io mi sentivo più che altro un osservatore: avevo messo subito in chiaro che non intendevo portare via niente (e cosa volete che ci stia, nella mia casa lillipuziana?), e leggere le pigne di cartoline e guardare tra i libri di inizio secolo mi faceva più l’effetto di curiosità da mercatino dell’usato che di qualcosa a cui appartenevo.
Eccezion fatta per l’atlante del bisnonno, naturalmente.
Chissà perché mia madre non ha mai parlato granché della sua famiglia. Da bambina ricordo la bisnonna Maria, classe ’98 (milleottocento-, ovviamente), che mentre ci metteva all’opera a impastare gli gnocchi per il pranzo, ci stupiva con i suoi racconti di adolescente un po’ sfrontata e un po’ incosciente nella prima guerra mondiale. Di come facesse avanti e indietro a piedi dalla città, di quando aveva rubato ai soldati tedeschi tutte le puntine del grammofono che era stato requisito alla sua famiglia.
Del resto dei parenti avevo un’idea più che nebulosa, tra zii che per lavoro viaggiavano verso nord o verso i deserti dell’est, cugine molto più grandi che facevano lavori quasi impossibili come la ballerina o l’artista, nonni e bisnonni di cui mi restava la naturalezza di prendere un sentiero e iniziare a salire, ma non un volto, un lavoro, un dettaglio che lo racchiudesse.
Finché ho scoperto che uno dei miei bisnonni era un geografo.
Sono tornata a casa tenendo stretto come un tesoro l’atlante a cui aveva lavorato alla fine degli anni 40, con le sue annotazioni a mano e i confini tracciati a penna, via via che andavano a definirsi: l’India e il Pakistan divisi dalla religione, lo Stato di Israele ad accogliere gli ebrei che cercavano di invertire il senso della loro diaspora millenaria.
E con me ho portato anche un manualetto dal titolo “Guida al disegno topografico”, immaginando di usarlo per disegnare quelle mappe che accompagnano i miei viaggi, o i miei progetti.
Ogni tanto sfoglio quelle pagine ingiallite, anche se dubito di poterle mai usare. Non riconosco un bosco ad alto fusto da uno ceduo, figuriamoci se posso mettermi a disegnarli.
Le mappe, però, restano una calamita a cui non so resistere.
Ho appena finito di leggere Le dieci Mappe che spiegano il mondo di Tim Marshall, a lungo corrispondente estero della BBC e inviato di guerra.
Un libro che spiega la storia – passata e contemporanea – attraverso la geografia.
Dopo Sapiens di Yuval Noah Harari, un’altra prospettiva per non accontentarmi del racconto da libro di testo che ricordo dalle scuole medie. Harari mi aveva accompagnato a rileggere i vincoli che ancora oggi hanno un impatto sulla nostra psicologia e sulle nostre scelte, rivelandoci molto meno sapienti e più legati al nostro passato remoto di quanto ci vorremmo immaginare.
Marshall ci mostra i territori fisici che stanno dietro alla mappa, spiegando perché hanno e avranno sempre impatto sugli equilibri e gli scontri di un mondo molto meno statico di quanto vorremmo raccontarci. Popoli uniti forzosamente ma che restano entità separate da monti o fiumi, distese di sabbia divise solo da righe tracciate a penna negli uffici dei burocrati, tensioni che si acuiscono o allentano lungo le rotte del prezzo delle materie prime.
Mi ha affascinato vedere il sogno americano in questa luce che lo racconta quasi inevitabile, mi ha turbato la visione del cuore di tenebra africano ancora schiacciato dai detriti accumulati in secoli il cui unico linguaggio comune è stato quello dell’avidità, forse per la prima volta ho visto le ragioni delle tribù, comunità e tradizioni che si guardano con aria di sfida attraverso i labili confini dei paesi mediorientali.
Ma adesso che, mentre queste righe vanno online, sono sospesa in volo sopra l’oceano, ho più che altro voglia di sfogliare le pagine colorate di Le Terre immaginate (che, come tanti spunti di creatività e fantasia, ho scoperto in una delle mie newsletter preferite, quella dell’artista e scrittore Austin Kleon)
Mappe da scrivere, creare, leggere.
Così si intitolano le diverse sezioni in cui è suddiviso il libro, che introducono a pagine colorate che raccolgono le ispirazioni di romanzieri e illustratori, tanto distanti tra loro per epoca e tecnica quanto accomunate dallo stesso senso di ricerca dell’avventura. Dall’Isola del Tesoro di Stevenson alla Mappa del Malandrino di Harry Potter, dalle tracce disegnate per preparare la trilogia dello Hobbit alle rappresentazioni dell’universo norreno.
“I libri sono porte. Si possono aprire e, aprendoli, si entra in un altro luogo, un altro tempo, un altro mondo. I libri mi portano in terre lontane (…) ma ho sempre desiderato sapere cosa si trovava al di là della mappa ed è per questo che, anni dopo, disegnai una mappa mia.”
dice l’illustratore Chris Riddell nel testo “La bellezza dei libri”, scritto per questo volume.
Poche cose ci fanno chiedere cosa sta dietro a una mappa come provare a disegnarne una tutta nostra.
Come a ogni partenza, anche oggi ne ho in tasca una scarabocchiata a mano qualche giorno fa – imperfetta, incompleta, tutta sbagliata. La porto con me in queste trenta ore di voli, transiti, attesa. In queste trenta ore per arrivare all’altro capo del mondo. Atterrerò il giorno di Natale, davanti all’oceano e nel sole.
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