Ci sono parole che si sentono ripetere così spesso che crediamo di saperle decodificare perfettamente. In realtà, più probabilmente, il risultato finale di questo uso ripetuto e insistito è che hanno perso gran parte del loro significato.

Leadership, motivazione, fiducia.

Chissà se le ultime settimane di forzata accelerazione in direzione del lavoro da casa porteranno qualche ragionamento più strutturato in merito. Una riflessione che si spinga davvero in direzione di un approccio di smart working, in cui le aziende cioè vadano a sviluppare competenze e una cultura aziendale che supportino queste caratteristiche.

Sono anni che se ne parla. Fornire strumenti e dare spazio ai propri dipendenti perché si sentano maggiormente coinvolti e proattivi. Ma secondo gli studi statistici di Gallup, società che opera negli Stati Uniti da quasi un secolo raccogliendo e analizzando l’opinione pubblica sui temi più svariati, il livello di engagement, a voler essere ottimisti, continua a restare bassino - seppur in leggero aumento dagli anni precedenti, attestandosi al 34%.

Il coinvolgimento, però, è uno degli elementi predittivi più affidabili dei risultati di performance aziendali - quando un dipendente si sente parte del team, comprende con chiarezza il suo ruolo, si sente libero di esprimere un’opinione o un’idea anche (o soprattutto) se offre una prospettiva diversa, ecco che allora la probabilità che metta a disposizione tutto il suo impegno e le sue competenze cresce in modo statisticamente significativo.

La cultura aziendale è anche questo, o forse parte proprio da qui.

Nel groviglio di sensazioni di queste giornate, tra paura e solitudine, disorientamento e scelte da fare, preoccupazione e fatica, mi sono resa conto che ce n'è una che fa capolino nella mia testa più spesso di quanto vorrei. Il senso di colpa.

Mi guardo attorno e sembra che tutti siano molto indaffarati. Saranno anche chiusi in casa, ma questo non li trattiene dal seguire corsi, pianificare eventi, immaginare progetti nuovi.

Io invece mi sento ferma, e perciò mi sento in colpa.

Il senso di colpa è una sensazione con cui, anche in circostanze più ordinarie, molti di noi hanno una certa dimestichezza. Ci sentiamo in colpa per le scelte che abbiamo fatto e per quelle che non abbiamo fatto, per le volte che abbiamo mollato troppo presto e per quelle in cui invece abbiamo trascinato una situazione che non funzionava perché non trovavamo il coraggio di mollare il colpo

Non mi stupisco, quindi, di sentirmi così adesso. Soprattutto se ammetto che, e non solo adesso, il problema non è tanto scegliere. Il problema è il bisogno di controllo.

Su quello che, in realtà, non possiamo controllare.

[questo è un post a quattro mani, nato da una frase condivisa qualche giorno fa da Eleonora che mi ha particolarmente colpito. Abbiamo iniziato a parlare, a riflettere sul concetto di prospettiva, a scrivere. Ecco quello che ne è venuto fuori]

"Quando Golia si mosse contro gli Israeliti, tutti i soldati pensarono: ‘È così grande che non potremo mai vincerlo’.
Ma Davide guardò il gigante e disse: ’ È così grande che non posso mancare il bersaglio”.
(Russ Johnston)

[L’una, ovvero io] Penso spesso alla prospettiva. Perché sono una viaggiatrice, perché sono una scrittrice, perché sono una fotografa.

Ci ho sempre pensato, in realtà, perché tutto il mio percorso professionale è cresciuto nelle Risorse Umane, il che per me significa lavorare con le persone e soprattuto *per* le persone - quindi non dare per scontato il mio punto di vista ma, al contrario, mettermi sempre in discussione, cercando di comprendere il comportamento degli interlocutori sulla base del loro contesto, del loro vissuto, della loro percezione.

Mi affascina osservare, osservarmi. Scoprire che la prospettiva ci permette di interpretare quello che vediamo quando arriviamo dall’altra parte del mondo, ma che a volte è ancora più interessante quando l’applichiamo nel quotidiano.

Ecco, probabilmente non immaginavo di trovarmi a riflettere di prospettiva da qui, seduta al tavolo della cucina, chiusa (doverosamente) in casa come tutto il resto d’Italia.

La mia reazione di fronte all'imprevisto, che è spesso quella di buttarmi e poi vedere come va, non è coraggio. Se dovessi spiegarla, direi piuttosto che è un po’ caso, un po’ istinto.

Quell’istinto che quando mi sento costretta mi fa divincolare, perché dentro a confini troppo stretti non ci so stare, e allora lì il ragionamento c’entra poco, non mi chiedo se avrebbe più senso fermarmi un istante e scegliere la strategia migliore, non mi preoccupo se muovendomi rischio di farmi male.

Perché la verità è che quando è il momento di cambiare, soprattutto se siamo costretti a cambiare, spesso lasciamo che sia la fretta a decidere.

Dimenticando che nel cambiamento non dobbiamo per forza essere soli, ma possiamo scegliere chi avere accanto.

Io sono quella che si annoia.

Quella che quando le cose vanno in automatico, allora è il momento di provare qualcosa di diverso. Quella che alza la mano quando c’è da seguire un nuovo progetto, ma quando serve la costanza di monitorare il processo lascia volentieri il posto a un altro. Quella che a un certo punto ha deciso di cambiare lavoro perché stava troppo bene, mentre un posto dove “c’è da fare tutto” sembrava la prospettiva più attraente che potesse esistere.

Ricordo ancora un giorno di qualche anno fa, ferma in coda nel traffico - avevo corso qualche maratona, scoperto da poco il trail running, pensavo che il triathlon fosse un po’ troppo ma, magari, il duathlon di corsa e bicicletta… E, a un tratto, mi sono fermata a riflettere su questo mio bisogno di provare, cercare, sperimentare.

Non sarebbe più sensato focalizzare le energie in una sola direzione, scegliere cosa voglio in modo sequenziale, e cercare di farlo davvero bene?

Non lo so.

Quando me lo chiedono, la risposta dipende dall’umore della giornata.

"Poi mi devi spiegare bene cosa fai”.

Se la interpreto come una domanda di circostanza, dico che faccio la consulente, figura allo stesso tempo abbastanza nebulosa da comprendere una varietà di sfaccettature e sufficientemente nota da risultare una definizione “socialmente accettabile.

Se ci leggo invece un reale interesse a districarsi tra le mille attività che faccio e (in parte) condivido all'esterno, spesso finisco a raccontarmi come se fossi un’azienda, con le sue linee di business differenziate a seconda del servizio e dell’interlocutore.

A volte vorrei rispondere che sono una viaggiatrice, una collezionista di storie, una ricercatrice di sfumature nelle parole, una donna con gli occhi stupiti da bambina.

Non so se, come diceva Walt Whitman “contengo moltitudini”, ma spesso mi pare che la situazione dentro alla mia testa sia piuttosto affollata.

La scorsa settimana mia madre ha compiuto gli anni. Un compleanno significativo, di quelli tondi, per cui tra noi figli era partito il consueto tam-tam per pensare al regalo da farle.

Se io sono allergica alle feste comandate, non è che i miei fratelli siano tanto meglio. Mia sorella adesso se la cava con la scusa di essere agli antipodi, mio fratello solleva la domanda così lascia agli altri l’onere di tirare fuori un’idea.

Stavolta, però, avevo un asso nella manica da sfoderare.

Mia madre, che dopo la pensione è diventata più attiva e impegnata di prima, e ha un'agenda più piena della mia, da qualche mese fa parte di un gruppo di nordic walking.

Il suo gruppo quest’estate andrà a Santiago, e noi le abbiamo regalato l'essenziale per mettersi in cammino.

Mi stavo a malapena riprendendo dallo shock di veder festeggiare il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino e, subito dopo, da quello di rendermi conto che il mio precedente viaggio in Australia era “diventato maggiorenne”, che mi sono imbattuta in un post dal titolo “It’s 2020 and you’re in the future.

Senza alcuna pietà, l'autore mi ricordava che l’uscita di film come Jurassic Park Forrest Gump è più vicina all’allunaggio che al presente, che chi ha almeno 35 anni è più vicino al 1940 che a oggi, che chi nascerà quest'anno ha buone probabilità di arrivare a vedere il prossimo, di secolo.

Solo un attimo fa questo 2020 ci sembrava un futuro così lontano, ma cosa è rimasto di quello che ce ne immaginavamo?

Ogni tanto capita. A me è capitato a fine anno.

Bloccata a casa da un piccolo infortunio sportivo, ne avevo approfittato per delineare i miei progetti per il nuovo anno. Ho bisogno di mettere mano a fogli e pennarelli, di creare una mappa colorata e tangibile che concretizzi in un piano da realizzare quelli che fino a quel momento erano idee, sogni, immaginazione.

Poi però, forse come l’inverno che è arrivato trafelato con la sua nebbia, le cose che sembravano così chiare lo sono diventate molto meno.

Anzi, a dirla tutta, all’improvviso quella che fino a un attimo prima mi sembrava una traccia ben chiara, si è rivelata un intrico che non riuscivo a distinguere, un nodo che non riuscivo a dipanare.

Un labirinto in cui non mi ero nemmeno conto di essere entrata.