Quella di dieci giorni fa aveva tutte le premesse di  una mattinata perfetta. La luce radente del sole autunnale, l’aria frizzante e i colori delle foglie, le gambe che fanno girare i pedali per andare a lavorare dopo mesi in un posto che non fosse casa. Per andare a parlare di leadership a un gruppo di imprenditrici, per sperimentare finalmente sul campo il modello di Brené Brown che negli ultimi due anni ho studiato e approfondito, su cui mi sono certificata e che ho tradotto per renderlo disponibile a tutti, al di là della barriera linguistica.

Aveva le premesse di una giornata perfetta, invece tutto quello che avevo sentito fino a quel momento era rabbia.

Rabbia mentre spegnevo la sveglia, rabbia mentre correvo nel silenzio della città ancora addormentata, rabbia mentre preparavo il caffè.

Se mi fosse capitato un paio di anni fa, avrei buttato giù. Avrei fatto finta di niente, all’esterno andando avanti come se niente fosse (che gli impegni si rispettano, che sul lavoro non si portano le proprie paturnie, che se tanto non si può risolvere allora non vale nemmeno la pena parlarne), dentro accumulando frustrazione e un groviglio allo stomaco cacciato sempre più nel profondo. 

Siamo stati troppo ingenui, su questo siamo tutti d’accordo. Ci siamo scoperti più vulnerabili di quanto credessimo.

Dichiarare a gran voce che ne saremmo usciti migliori, che sarebbe andato tutto bene. Ci credevamo, in quel momento. D’altra parte, da qualunque lato si guardi la situazione, non solo non eravamo preparati, ma forse era impossibile essere preparati, o esserlo del tutto, dato che quello che è successo non era mai accaduto, per lo meno non era mai accaduto nel contesto attuale di velocità dello scambio. Scambio di persone, di idee, di merci. Le prime sono diventate veicolo della diffusione della malattia, le seconde hanno mostrato la fragilità del nostro senso critico, le terze hanno per un po’ scavalcato, in ordine di priorità e di valore, l’immaterialità che sembrava essere ormai l’unico perno dell’economia.

Il cambiamento, però, anche se non era quello che avevamo immaginato, resta un dato di fatto. Un dato di fatto complicato, diciamolo pure. Perché ci costringe ad ammettere quanto poco ci conosciamo, quanto siamo meno… coraggiosi? Coerenti? Promotori di azioni concrete? Disposti a metterci la faccia e l’impegno che servono? Fate voi.

Quanto siamo più fragili e in bilico di quanto volevamo raccontarci.

Ricordo perfettamente la prima volta che ho visto The Matrix. Fino a quel momento il mio incontro con la fantascienza era stato mediato da mio padre, appassionato di classici, che poco più che bambina mi aveva passato la Trilogia della fondazione di Asimov e mi aveva fatto vedere 2001 Odissea nello Spazio. Non stupisce che dopo quelle esperienze - culturalmente elevate ma non certo agevoli come percorso di avvicinamento al genere - avessi lasciato cadere la cosa. The Matrix, però, era stata una folgorazione.

Come ritrovare un pensiero che nemmeno sapevo di avere, ma che era sempre stato in sottofondo.

Pillola rossa o pillola blu, la sicurezza della comfort zone o la verità che si apre fuori dai confini delle abitudini. La realtà come illusione messa a confronto con la comodità di accettare la storia che ci viene raccontata.

A vent’anni tutto è bianco o nero così, era chiaro, mi schieravo tra quelli che non potevano accettare la scatola che limita dalla possibilità di reinventarsi, quella in cui crediamo di muoverci liberamente mentre siamo sospesi, addormentati, senza nemmeno immaginare che ci sono scelte alternative. Oggi non ho cambiato opinione sulla voglia di uscire dalla scatola, ma ho cambiato punto di vista sulla responsabilità di ciò che non vediamo.

Nessuno ce l’ha raccontata, tutt’al più ce la siamo lasciata raccontare, spesso ce la siamo raccontati da soli. 

Al liceo la fisica mi sembrava una grande fregatura. Alla prima lezione mi avevano illuso che in quelle formule avrei capito il funzionamento del mondo, alla seconda già mi dicevano che però dovevo considerare un sistema ideale, in cui punti senza peso e senza dimensioni si muovevano in uno spazio senza aria e senza gravità. Un interessante esercizio teorico, ma io volevo capire come funzionavano davvero le cose.

Di quelle formule ricordo ben poco, ma in questi giorni ogni tanto ci penso.

Per settimane ho rallentato e rallentato, e adesso cavoli se la sento, l’inerzia che rende difficile riprendere il movimento.

Principio d’inerzia: un corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a modificare tale stato.

Mi sento proprio così. Magari non ferma, ma certo frenata. Come se ogni azione richiedesse una quantità di energia superiore al consueto. Un'energia che fatico a ritrovare.

Ormai ci è chiaro che la forza di volontà porta solo fino a un certo punto, se dietro non c'è un forte perché. Quando ho deciso di lasciare il ruolo in azienda, ma mia motivazione era piuttosto evidente. Cercavo libertà di movimento. Intesa in senso fisico, nella scelta del quando e del dove, del tempo e dello spazio da dedicare al lavoro. Ma, forse ancora di più, intesa come libertà di pensiero, di poter immaginare qualcosa di mio, di costruirlo da zero, di sviluppare progetti per esprimere le mie idee, il  mio punto di vista, la mia creatività

Volevo creare qualcosa che non esisteva, vedere l'impatto che potevo portare attorno a me, il cambiamento a cui potevo contribuire.

Era la prima volta che pensavo seriamente a me stessa come un progetto. Che necessita del giusto tempo, della giusta prospettiva. Come in un viaggio ho cercato di studiare in anticipo il paesaggio in cui mi sarei mossa, per essere preparata senza irrigidirmi in un itinerario troppo stringente, pronta a rimboccarmi le maniche per affrontare gli imprevisti.

Avevo previsto l'entusiasmo e gli ostacoli, le vittorie e le battute di arresto. Credevo che la paura sarebbe stata bilanciata dalla felicità di esprimersi, dall’orgoglio di indirizzare la propria strada, seppur accidentata.

Tanto per cambiare, l’avevo fatta un po’ troppo facile, e mi ero dimenticata qualche pezzo.

Non avevo messo in conto che più che aiutare a superare la paura, molto spesso la creatività è lei stessa fonte di paura.

La scorsa settimana mia madre ha compiuto gli anni. Un compleanno significativo, di quelli tondi, per cui tra noi figli era partito il consueto tam-tam per pensare al regalo da farle.

Se io sono allergica alle feste comandate, non è che i miei fratelli siano tanto meglio. Mia sorella adesso se la cava con la scusa di essere agli antipodi, mio fratello solleva la domanda così lascia agli altri l’onere di tirare fuori un’idea.

Stavolta, però, avevo un asso nella manica da sfoderare.

Mia madre, che dopo la pensione è diventata più attiva e impegnata di prima, e ha un'agenda più piena della mia, da qualche mese fa parte di un gruppo di nordic walking.

Il suo gruppo quest’estate andrà a Santiago, e noi le abbiamo regalato l'essenziale per mettersi in cammino.

Ogni tanto capita. A me è capitato a fine anno.

Bloccata a casa da un piccolo infortunio sportivo, ne avevo approfittato per delineare i miei progetti per il nuovo anno. Ho bisogno di mettere mano a fogli e pennarelli, di creare una mappa colorata e tangibile che concretizzi in un piano da realizzare quelli che fino a quel momento erano idee, sogni, immaginazione.

Poi però, forse come l’inverno che è arrivato trafelato con la sua nebbia, le cose che sembravano così chiare lo sono diventate molto meno.

Anzi, a dirla tutta, all’improvviso quella che fino a un attimo prima mi sembrava una traccia ben chiara, si è rivelata un intrico che non riuscivo a distinguere, un nodo che non riuscivo a dipanare.

Un labirinto in cui non mi ero nemmeno conto di essere entrata.

Si diceva che intanto bisogna fare il primo passo, e su quello Lucia era partita carica e piena di entusiasmo. Nel suo lavoro è sempre stata brava, i risultati arrivavano e gli obiettivi, anche quando erano impegnativi, non avevano tanto rappresentato un ostacolo ma una sfida stimolante, una scalata per arrivare in vetta e piantare, fiera, la sua bandierina.

Solo che,  a distanza di un anno dalla decisione di mettersi in proprio, le cose non stavano andando esattamente come pianificato.

Perché nessuno le aveva detto che anche i sogni devono superare un test di sostenibilità?

Questo weekend dovevo essere a Valencia, a correre la maratona. 

Avevo scelto con cura la destinazione, perché per un incrocio casuale di circostanze sarebbe stata la mia decima gara su questa distanza, 42 chilometri a 42 anni.

Dicono che Valencia sia una gara veloce, scenografica, emozionante. 

Forse lo scoprirò la prossima volta, forse non lo scoprirò mai. Di certo non l’ho scoperto stavolta, perché alla fine a Valencia non ci sono andata.

Non so dire se ho scelto la corsa di lunga distanza perché corrispondeva al mio carattere o se il mio carattere si è formato anche grazie alla corsa.

Quel che è certo è che senza la corsa non sarei quella che sono, e oggi che pensavo di scrivere un post su una gara che non ho fatto, ho deciso invece di raccogliere quattro parole che raccontano cosa significa per me la corsa.