La mia reazione di fronte all'imprevisto, che è spesso quella di buttarmi e poi vedere come va, non è coraggio. Se dovessi spiegarla, direi piuttosto che è un po’ caso, un po’ istinto.

Quell’istinto che quando mi sento costretta mi fa divincolare, perché dentro a confini troppo stretti non ci so stare, e allora lì il ragionamento c’entra poco, non mi chiedo se avrebbe più senso fermarmi un istante e scegliere la strategia migliore, non mi preoccupo se muovendomi rischio di farmi male.

Perché la verità è che quando è il momento di cambiare, soprattutto se siamo costretti a cambiare, spesso lasciamo che sia la fretta a decidere.

Dimenticando che nel cambiamento non dobbiamo per forza essere soli, ma possiamo scegliere chi avere accanto.

Dell’anno bisestile, in realtà, sapevo solo una cosa.

Anno bisesto, anno funesto - si dice.

In effetti il 2020 non è che sia partito benissimo, con questo coprifuoco per mezza Italia e scene da apocalisse in corso causa timore da virus.

I precedenti? Sono di memoria corta, quando si tratta di quello che non funziona, quindi faccio un po’ fatica a dire come sono andati i precedenti anni bisestili.

Mi sforzo e provo a riavvolgere il nastro.

Gennaio è partito come sempre: con l’agenda organizzata e pronta per i progetti pianificati per il nuovo anno.

Poi una alla volta le caselline colorate dell’agenda hanno iniziato a saltare, a slittare, a dileguarsi. Ora, non che la cosa non succedesse anche in azienda: idee che sembravano così interessanti da dover essere realizzare immediatamente - e che invece si sono impantanate chissà dove, travolte dalle urgenze o dai cambi di direzione.

Solo che, quando lavori in proprio, le battute d'arresto sembrano molto più brusche.

Perché in azienda i buchi dell’agenda sembrano riempirsi come per magia. C’è sempre qualcosa da fare, qualcuno che ti chiede una mano. E, nella peggiore delle ipotesi, c’è sempre l’archivio di sistemare. 

Non è che adesso abbia meno cose da fare. Anzi.

Gli spazi liberati dalle attività contingenti dovrebbero essere una manna dal cielo, fondamentali per mettere le fondamenta per i piani a medio o a lungo termine.

Quando me lo chiedono, la risposta dipende dall’umore della giornata.

"Poi mi devi spiegare bene cosa fai”.

Se la interpreto come una domanda di circostanza, dico che faccio la consulente, figura allo stesso tempo abbastanza nebulosa da comprendere una varietà di sfaccettature e sufficientemente nota da risultare una definizione “socialmente accettabile.

Se ci leggo invece un reale interesse a districarsi tra le mille attività che faccio e (in parte) condivido all'esterno, spesso finisco a raccontarmi come se fossi un’azienda, con le sue linee di business differenziate a seconda del servizio e dell’interlocutore.

A volte vorrei rispondere che sono una viaggiatrice, una collezionista di storie, una ricercatrice di sfumature nelle parole, una donna con gli occhi stupiti da bambina.

Non so se, come diceva Walt Whitman “contengo moltitudini”, ma spesso mi pare che la situazione dentro alla mia testa sia piuttosto affollata.

"Camminano le monache nel chiostro: vanno e vengono, avranno impegni da svolgere, luoghi da raggiungere… come te, i tuoi amici, gli uomini che incontri. Eppure è un camminare diverso, perché tu hai una meta da raggiungere, e poi ne avrai altre, e altre… Le mie sorelle e io siamo già nella meta della nostra vita.”

Da inizio anno ho ripreso a leggere La Via dell’Artista, libro della scrittrice e sceneggiatrice Julia Cameron che parte dall’assunto che essere creativi non sia un talento concesso solo ad alcuni, o un capriccio che la maggior parte di noi deve mettere da parte per diventare un adulto serio e responsabile ma, al contrario, la naturale inclinazione di ogni essere umano, un dono che riceviamo e che saremmo irresponsabili ed egoisti a non mettere a disposizione del mondo.

La prima volta che ho letto questo libro-manuale, e che ho applicato il metodo che propone per “sbloccarci” dal nostro status di resistenza anti-creativa, sono successe almeno un paio di rivoluzioni. 

Il 2018 è stato un anno anomalo, per una viaggiatrice come me.

Ho parlato molto di viaggi e cammini, ma ne ho fatti ben pochi. Dovevo ancora metabolizzare il trimestre sabbatico sudamericano, e avviare la nuova attività da libera professionista (con le insicurezze e i dubbi che ne derivano).

Non mi sentivo di partire. Non sapevo se ero pronta, o se me lo meritavo.

Il 2019 invece è stato in continuo movimento.

Con la curva del cambiamento ho a che fare quasi tutti i giorni. Perché è quella che accompagna i percorsi di coaching individuale. Perché è quella che caratterizza i processi di innovazione in azienda. Perché è quella che vivo quando mi prende la vertigine di non capire in quale direzione muovere il prossimo passo, quando mi sembra di aver puntato troppo in alto, quando dubito di essere abbastanza capace, forte, brava per farcela.

Perché anche quando il cambiamento è scelto, e non subìto, non è che tutto vada sempre liscio e secondo le aspettative.

Anzi, non lo fa quasi mai.

Sono un'ottimista, e quando vedo una nuova opportunità mi faccio prendere dalla curiosità di capirne di più. Ma quando sei nel bel mezzo del cambiamento, l’arco che si percorre resta quello: l’entusiasmo iniziale che proietta in scenari da sogno, l’impatto con la consapevolezza che le cose per realizzarsi richiedono spesso più tempo e fatica di quanto volessimo ammettere inizialmente, la tentazione di mollare tutto.

L’inghippo è tutto qui.

[dalla newsletter di Brené Brown]

La decima volta che rileggo la frase. Forse potrei trovare un sinonimo, forse non ha il ritmo giusto. Non sono io che parlo, lo so, ma il perfezionismo, con la sua espressione scettica e lo sguardo di chi pensa non arriverai da nessuna parte.

Perfezionismo è una parola dalle mille sfaccettature.

Sembra abbia una definizione differente per ogni persona con cui parli. C’è chi lo identifica come modello positivo, volto a raggiungere il miglior risultato possibile. Chi mette in evidenza i rischi della ricerca costante di un ipotetico ideale che, ovviamente, è destinato a sfuggirci costantemente. Addirittura nel linguaggio medico identifica una vera e propria patologia, una “tendenza nevrotica che può impedire all’individuo di attuare cose relativamente semplici perché il suo narcisismo e la sua autocritica spostano costantemente tale attuazione verso obiettivi ideali irraggiungibili” (non ci vanno leggeri).

Noi donne, poi, tendiamo ad avere una lunga lista di temi che scatenano il nostro perfezionismo.

L'alba a Cape Muroto, isola di Shikoku. Fermarsi a contemplare la meraviglia

"Come fai a stare sempre giro, non è ancora il momento di fermarsi?”

A volte è una domanda diretta, a volte mi arriva per vie traverse. Dentro, o dietro, ci sono un sacco di storie diverse. Quelle di chi chiede, più che la mia. Chi è affezionato alla sicurezza della propria routine quotidiana e non riesce neppure a immaginare di rimbalzare nella stessa settimana da Trieste a Bologna, da Venezia a Torino. Chi prende l’aereo solo per andare in vacanza, e quindi mescola un pizzico di invidia a un accenno di “beata te che te lo puoi permettere”.

È vero - sono stata in giro, ho dormito ben poco a casa, mi sono goduta la scoperta di città mai viste come la meraviglia di città che mi sembrano più belle ogni volta che ci metto piede. Sono stata a Malta e a Berlino, solo bagaglio a mano e filosofia no frills, ostello, mangiare nei mercatini e arrivare ovunque camminando.

Il primo anno da freelance è stata una costante sperimentazione di contatti e contenuti, per capire cosa sapevo fare, cosa potevo imparare e soprattutto in che direzione volevo continuare a esplorare,

Quest’anno ho iniziato a ridefinire il modo in cui posso e voglio lavorare.