imparare ad ascoltare

Siamo la società della comunicazione costante. Abbiamo tutti la possibilità di scrivere, fotografare, raccontarci, condividere ogni pensiero e ogni cosa che stiamo facendo. Guardiamo, ma non sempre vediamo. Sentiamo, ma non è detto che ancora abbiamo capito cosa voglia dire saper ascoltare.

Ma se stiamo tutti parlando, alla fine chi è che ascolta davvero?

Cosa significa saper ascoltare

Sarà la mia passione per le parole, ma oggi vedo sempre più confusione tra ascoltare e sentire. Percepiamo le onde sonore che ci colpiscono viaggiando attraverso l’aria, ma una volta che ci hanno raggiunto, cosa ce ne facciamo?

Faro Beagle Channel_direzione

Aprile sarà un mese di inizi. Dopo una vita intera, nel percorso scolastico e professionale, in cui mi ero abituata ad essere quella brava, adesso che sono tornata ad essere un'apprendista provo livelli alternati di agitazione e terrore.

In preda a quella che si definisce Sindrome dell’impostore.

Ma chi mi credo di essere?

Come molti sono stata educata a non vantarmi e mi è stato ripetuto allo sfinimento che mettersi troppo in mostra è quanto meno di cattivo gusto. Se ci aggiungiamo un pizzico di perfezionismo (ok, facciamo pure un chilo) e una certa dose di ansia da confronto - immagina che bella ricetta.

Fare Networking

Venerdì sera mi aggiravo sul parquet lucido di una palestra, con in faccia il sorriso tirato che indosso sempre quando devo andare ad uno dei miei personali momento patibolo: quello di fare networking.

Ci faccio i conti da un bel po’. Da quando il mio ruolo in azienda è gradualmente passato dal fare al proporre e quindi ho iniziato ad essere pagata per dedicarmi (anche) a una delle cose che mi piacciono di più.

Imparare.

Alle conferenze prendevo appunti su quello che ascoltavo e sulle idee che mi venivano, immaginavo l’applicabilità di modelli nel mio contesto, confrontavo i progetti in corso con quelli che erano già stati realizzati da altri.

E poi, arrivava il momento più tenuto. Quello, appunto, dedicato a fare networking.

Labirinto Lucca

Sospetto che mi madre non abbia mai capito esattamente che lavoro faccio.

Il che è pienamente comprensibile. Fa parte di quella generazione che è andata in pensione dalla stessa azienda con cui aveva iniziato a lavorare pochi giorni dopo aver terminato gli studi.

Le sono invece toccati tre figli irrequieti: uno che si è trasferito oltre confine, una che ha l’obiettivo di andare dall’altra parte del mondo. E io, che avevo una buona posizione e che ho deciso di mollarla per occuparmi di un lavoro che fino a poco tempo fa nemmeno esisteva. Ammetto che con l’allenamento è molto migliorata. Quando ho annunciato la mia partenza per il Sudamerica quasi non ha battuto ciglio e anche adesso sta reggendo piuttosto bene.

Così, dato che ce la sta mettendo tutta per capire cosa ho esattamente in testa, le ho promesso un post per spiegarle che cosa faccio.

Iniziamo dal principio…

Cos’è il coaching?

Alice nel Paese delle Meraviglie, Murales a Londra

Da brava perfettina, vivo i giorni prima di andare in aula proprio come se fossi tornata ai tempi dell’università. Pagine di appunti, mappe per schematizzare quello che dirò, ripassi dell’ultimo minuto. Tutto ben preciso e organizzato.

Poi, giusto per contraddire la teoria di tutta questa preparazione rigorosa, durante un workshop sul talento le prime parole che sono uscite dalla mia bocca sono state “Ciao, sono Laura e sono una scrittrice.

Hai mai provato a dire una cosa del genere?

Qualche mese fa mi è venuta voglia di provare a disegnare. Non era uno dei miei passatempi da bambina. Mi rivedo sdraiata sul pavimento a costruire città e storie con i mattoncini. Ricordo infiniti pomeriggi ad esplorare il mondo al di là del muro di cinta, che scavalcavo attratta come da una calamita dal senso di mistero di ciò che non avevo ancora visto. O immersa nei libri di mia madre da ragazzina, immagine anche questa sconosciuta e lontana, di cui cercavo indizi in quelle pagine che aveva letto qualche decennio prima di me. Non mi sono mai considerata una persona creativa. Probabilmente perché associavo a questa parola l’idea di una legittimazione legata al riconoscimento pubblico ed economico. Chi ti credi di essere? Cosa credi di avere di così eccezionale? Non sei un genio e con la creatività non ci camperai mai, quindi puoi anche lasciar perdere prima di iniziare. Nessuno me lo ha detto in maniera esplicita, ma in qualche modo è quello che ho assorbito dall’ambiente in cui sono cresciuta. Bisogna studiare per avere bei voti, scegliere un lavoro solido, avere un obiettivo pratico. Dedicare le proprie energie a qualcosa di produttivo. Ed è esattamente quello che ho fatto. Poi un giorno sono tornata a casa con un album di fogli bianchi, una matita e una gomma. Ho cercato online un manuale con qualche spunto da cui partire. E ho iniziato. È strano, mettere mano ad un’attività dimenticata da chissà quanto tempo. È strano, mettere mano a qualcosa senza chiederti quale sarà il risultato. Ma è anche molto liberatorio, e mi ha insegnato parecchie cose.

Elena Dossi, Professional Organizer, ci spiega il cambio armadio perfetto in un workshop presso IKEA Carugate Fino a un anno fa, abitavo in una casa molto più grande. Avevo una camera vuota, che poco alla volta è diventata la versione extra-large del cassetto in cui butti distrattamente le cose magari–poi-mi-serve. Alla fine la chiamavo rifugium peccatorum e, in tutta sincerità, avevo dimenticato gran parte delle cose che conteneva. In vista del trasloco, ne ho approfittato per fare piazza pulita. Io sono così, quando mi prende la fase repulisti non guardo in faccia nessuno. Un sacco nero e via. Se erano lì dimenticate da mesi, la possibilità che quelle cose mi tornassero utili era piuttosto remota. Non è così per tutti, lo so. Spesso l’idea di buttare ci mette in crisi ancora prima di iniziare.

Pranzo con un’amica che non vedevo da qualche settimana. Ci corriamo incontro e ci abbracciamo ridendo. Mi dice che la colpisce il mio sguardo, al tempo stesso pieno di pace e spalancato su quello che sta per succedere.

L’ho trovato un complimento magnifico. Che cattura tanto di quello che mi ha regalato l'esperienza del Giappone.

Sfogliando le pagine del mio diario di viaggio, mi sono resa conto che pagina dopo pagina ho collezionato istantanee altalenanti tra ammirazione e perplessità. Sensazioni spesso concentrate addirittura in un unico momento. E ancora più accentuate dal fatto che, pur essendo a migliaia di chilometri da casa, al primo impatto le similitudini del modo di vivere sembravano essere molto più forti delle differenze: gli stessi palazzi e le stesse strade affollate, la stessa fretta e le stesse vetrine di una qualsiasi città occidentale. Ma, svelandosi poco alla volta, il Giappone mi ha regalato la possibilità di stupirmi, interrogarmi, allenarmi alla modalità che favorisce maggiormente la reale comprensione – la sospensione del giudizio. Ecco quindi una lista molto incompleta e molto imperfetta delle cose che (non) ho capito in questo viaggio.

Per dire, il peso di quello che ci raccontano da bambini. Oggi tutti parlano delle Storie della buonanotte per bambine ribelli. Quando ero piccola, invece, una delle favole che preferivo era La Bella Addormentata nel Bosco. Una tizia incapace di qualsiasi lavoro manuale (e fin qui a somiglianze ci siamo), che si punge con il fuso di un arcolaio (magnifici termini che avevo imparato a memoria ma che non ho capito nemmeno ora cosa significhino esattamente), sviene (probabilmente di noia) e attende qualche decennio prima di essere risvegliata dal Principe Azzurro. Insomma, bel modello. Una che è rimasta ad aspettare che la vita le succedesse, senza essere nemmeno sfiorata dall’idea che sia possibile desiderare, impegnarsi, realizzare.