Gennaio è partito come sempre: con l’agenda organizzata e pronta per i progetti pianificati per il nuovo anno.

Poi una alla volta le caselline colorate dell’agenda hanno iniziato a saltare, a slittare, a dileguarsi. Ora, non che la cosa non succedesse anche in azienda: idee che sembravano così interessanti da dover essere realizzare immediatamente - e che invece si sono impantanate chissà dove, travolte dalle urgenze o dai cambi di direzione.

Solo che, quando lavori in proprio, le battute d'arresto sembrano molto più brusche.

Perché in azienda i buchi dell’agenda sembrano riempirsi come per magia. C’è sempre qualcosa da fare, qualcuno che ti chiede una mano. E, nella peggiore delle ipotesi, c’è sempre l’archivio di sistemare. 

Non è che adesso abbia meno cose da fare. Anzi.

Gli spazi liberati dalle attività contingenti dovrebbero essere una manna dal cielo, fondamentali per mettere le fondamenta per i piani a medio o a lungo termine.

Ogni tanto capita. A me è capitato a fine anno.

Bloccata a casa da un piccolo infortunio sportivo, ne avevo approfittato per delineare i miei progetti per il nuovo anno. Ho bisogno di mettere mano a fogli e pennarelli, di creare una mappa colorata e tangibile che concretizzi in un piano da realizzare quelli che fino a quel momento erano idee, sogni, immaginazione.

Poi però, forse come l’inverno che è arrivato trafelato con la sua nebbia, le cose che sembravano così chiare lo sono diventate molto meno.

Anzi, a dirla tutta, all’improvviso quella che fino a un attimo prima mi sembrava una traccia ben chiara, si è rivelata un intrico che non riuscivo a distinguere, un nodo che non riuscivo a dipanare.

Un labirinto in cui non mi ero nemmeno conto di essere entrata.

Ho aperto il mio account Instagram il 31 marzo 2017. Non ricordo esattamente da dove mi sia venuta l’idea, dato che fino a quel momento ero talmente poco affine ai social da avere su Facebook meno di un centinaio di contatti. Ma forse perché l’anno prima avevo finalmente fatto un corso di fotografia e comprato la mia prima reflex, forse perché avevo approfondito il tema dello storytelling per immagini, volevo esplorare questo strumento che permetteva di guardare e narrare, vedere e condividere.

Scorrendo le immagini a ritroso vedo passarmi davanti tre anni di vita, e almeno tre modi di usare questo canale.

Le foto ingenue (e in tutta onestà, bruttine) dei primi mesi, la collaborazione con un’agenzia di comunicazione in cui mi erano state insegnate le regole di un profilo professionale perfetto, il momento in cui ho deciso che (tanto per cambiare) avevo bisogno di fare le cose a modo mio.

Quella sequenza di quasi cinquecento foto è una finestra che permette di guardare la mia vita: libri, scorci di Milano in ogni stagione, scarpe da corsa, dettagli di arte e bellezza. Cene con gli amici, risate che riverberano nel mosso dell’immagine, gnocchi impastati oltralpe e mazzi di fiori arrivati dall’altra parte del mondo.

Luoghi, colori, istanti di viaggio.

Una foto al giorno per ciascuna delle avventure che in questi tre anni mi hanno portata in mezza Italia e poi dal Giappone alla Patagonia, del Texas a Berlino.

Oggi la 25esimaora è seguita da un po’ più di 700 persone. Molte non le ho nemmeno mai incontrate.

“Spero sia stata una splendida giornata”, diceva il messaggio di Daniela. Stavo per rispondere che, in realtà, ero un po’ triste. Poi ci ho pensato meglio, e ho realizzato che triste non era la parola che descriveva il miscuglio di emozioni che avevo in quel momento nella pancia.

Mi sentivo malinconica, pensierosa, forse un po’ delusa. Non triste.

D’altra parte il linguaggio che servirebbe per raccontare le nostre emozioni sembra essere una lingua straniera che non conosciamo.

E, d’altra parte, nessuno ce l’ha mai insegnata davvero.

Ci sono città che sembrano immediatamente raccontarci un paesaggio interiore che nemmeno conoscevamo. Ho messo piede a New York per la prima volta meno di due mesi dopo la laurea. Era una preistoria senza rete e senza l’ubiquità delle immagini condivise, ero una viaggiatrice impacciata al suo primo volo intercontinentale - ma mi è sembrato di riconoscerla subito, come se aspettasse proprio me. Sono arrivata a Santiago del Cile con quasi il doppio degli anni e uno zaino molto più leggero, e dopo pochi passi mi pareva che la città mi avesse già abbracciato, invitandomi a fermarmi per conoscerci meglio.

Berlino la corteggiavo da sempre, prima con negli occhi quelle immagini di gioia pura della libertà, poi immaginando che ci sarei stata per correre la sua maratona, una delle più famose e veloci al mondo. 

Invece ho scelto un weekend a caso, ho comprato un volo low cost, e sono partita.

Fin dagli anni ’50 si riflette su come la psicologia e la ricerca sulle emozioni possono andare a sostenere non solo situazioni di disagio, ma anche guidare verso meccanismi per una buona salute mentale: ecco così la diffusione della psicologia positiva di Martin Seligman o iniziative come Action for Happiness, no profit inglese che riunisce persone che vogliono contribuire al cambiamento sociale attraverso azioni pratiche in questa direzione.

Così oggi di felicità sappiamo un sacco di cose: che non la possiamo raggiungere da soli ma coltivando le relazioni con chi ci sta accanto, che ha a che fare con lo spazio in cui viviamo e il clima dell'ambiente in lavoriamo, con il movimento e la cura di noi, con la gratitudine e il senso di ciò che facciamo.

Non so a voi, ma a me tutta questa enfasi a volte crea un po’ di ansia. 

Un mazzo multicolore di tulipani, la bellezza della diversità da coltivare e raccogliere
Foto di Alice Achterhof @alicegrace

La mia parola dell'anno è raccogliere. È il terzo anno che trovo un filo conduttore per i dodici mesi che iniziano, e ogni volta mi sembra di non essere io a scegliere la parola, ma che sia lei a scegliere me. Parto da un'idea, mi immergo nella diversità di etimologie e sfumature, immagino di dirigermi in una direzione e mi trovo in quella opposta.

Raccogliere mi sembrava pretenzioso.

Come dichiarare di voler stare seduta ad aspettare il ritorno di quanto investito. 

Ma raccogliere è un verbo, non un sostantivo. Niente di statico, niente di scontato. 

Una parola che racconta un intero anno: per raccogliere bisogna prima seminare, prendersi cura dei germogli quando sono ancora delicati, affrontare il sole e la pioggia, osservare i frutti per metterli da parte via via che arrivano a maturazione, evitando che possano andare sprecati.

Un bell’investimento.

In cosa trovi la tua energia?

Oggi non sono andata a correre. Quando la sveglia è suonata l’ho spenta e mi sono voltata dall’altra parte. Di solito sprizzo energia fin dal primo mattino, ma in questi giorni non è così. E mi sono chiesta il perché.

Mi sono ricordata quella volta che mi è stato chiesto di compilare la “Lista dei complimenti più belli che hai ricevuto”. Magari anche tu fai classifiche per tutto come Nick Hornby, che in Alta Fedeltà spazia dalle “cinque più memorabili fregature sentimentali” all’elenco dei cinque lavori dei sogni, per poi tuffarsi in liste musicali di ogni genere. A me invece la parola lista faceva venire in mente la spesa, o al massimo la traccia delle cose da non dimenticare.

imparare ad ascoltare

Siamo la società della comunicazione costante. Abbiamo tutti la possibilità di scrivere, fotografare, raccontarci, condividere ogni pensiero e ogni cosa che stiamo facendo. Guardiamo, ma non sempre vediamo. Sentiamo, ma non è detto che ancora abbiamo capito cosa voglia dire saper ascoltare.

Ma se stiamo tutti parlando, alla fine chi è che ascolta davvero?

Cosa significa saper ascoltare

Sarà la mia passione per le parole, ma oggi vedo sempre più confusione tra ascoltare e sentire. Percepiamo le onde sonore che ci colpiscono viaggiando attraverso l’aria, ma una volta che ci hanno raggiunto, cosa ce ne facciamo?