Diversità da seminare, coltivare, raccogliere
12 Febbraio 2019
La mia parola dell’anno è raccogliere. È il terzo anno che trovo un filo conduttore per i dodici mesi che iniziano, e ogni volta mi sembra di non essere io a scegliere la parola, ma che sia lei a scegliere me. Parto da un’idea, mi immergo nella diversità di etimologie e sfumature, immagino di dirigermi in una direzione e mi trovo in quella opposta.
Raccogliere mi sembrava pretenzioso.
Come dichiarare di voler stare seduta ad aspettare il ritorno di quanto investito.
Ma raccogliere è un verbo, non un sostantivo. Niente di statico, niente di scontato.
Una parola che racconta un intero anno: per raccogliere bisogna prima seminare, prendersi cura dei germogli quando sono ancora delicati, affrontare il sole e la pioggia, osservare i frutti per metterli da parte via via che arrivano a maturazione, evitando che possano andare sprecati.
Un bell’investimento.
Scegliere questa parola per me è stata anche la sfida a guardare le cose da una prospettiva diversa, senza fermarmi a un unico significato ma scoprendo come può essere modulata nei suoi diversi usi, mese per mese, alla scoperta di spazi altri rispetto a quelli in cui so di potermi muovere sentendomi a mio agio.
Raccogliere è un movimento che avvicina: idee, persone, progetti.
Dopo un’intera vita vissuta dentro la mia corazza lucida, lasciar avvicinare le persone non mi viene del tutto naturale, ma dopo un anno di libera professione, in cui mi sono concessa di fare e sbagliare da sola, avevo voglia di sperimentarmi come parte di una squadra.
Una delle mille contraddizioni di essere umani è quella di sentirsi sempre in bilico tra il desiderio di fare le cose di testa nostra e il bisogno di riconoscerci in un gruppo. Tra primeggiare e confonderci nella folla, tra essere liberi ed essere parte. Un tempo perché chi sapeva collaborare aveva maggiori opportunità di sopravvivenza, in un mondo che non era certo a misura di questi strani animali senza zanne né muscoli potenti.
Oggi capita meno spesso di dover sfuggire all’inseguimento di un carnivoro, ma abbiamo ancora bisogno degli altri, per costruire: un tempo insieme immaginavamo la protezione di rifugi e muri (questi ultimi purtroppo ci piacciono ancora, anche a sproposito), oggi dalla collaborazione fioriscono soprattutto nuove idee.
Il difficile è quando entra in gioco la diversità di opinioni.
Il conflitto non ci piace, non siamo bravi a gestirlo. Così di solito facciamo due cose: tendiamo a circondarci di persone simili a noi, e gestiamo nel peggior modo possibile il disaccordo – fingendo che non esista.
Negli anni 60 Meredith Belbin, ricercatore e professione di Management al Henley Management College, iniziò a interrogarsi sul funzionamento dei team di lavoro dopo aver osservato che, contrariamente alle aspettative, gruppi formati da persone dall’intelligenza sopra la media non sempre funzionavano meglio di gruppi composti da persone con un’intelligenza considerata nella media.
Il segreto di un gruppo che funziona? La diversità.
Tra le varie combinazioni, infatti, raggiungevano risultati migliori erano quelle che bilanciavano tutte le diverse caratteristiche utili a portare avanti efficacemente le differenti attività e fasi di progetto.
Piuttosto semplice in teoria, un po’ meno in pratica.
Ho descritto spesso questo strumento in azienda, e l’impatto è immediato: via via che vengono approfonditi i ruoli che possiamo assumere in un gruppo, ciascuno riconosce sfaccettature di sé, prova a osservare il vicino di scrivania per interpretare il suo comportamento, cerca di ricostruire il mosaico della diversità di approccio in azienda.
In aula funziona tutto bene, ma quando si torna sul campo la consapevolezza da sola non basta.
È come quando si studiano le leggi della fisica. Lineari e chiarissime, purché ragioniamo di corpi puntiformi, senza dimensioni, che si muovono nel vuoto. Poi torniamo nel mondo reale, e le variabili aumentano.
Bella fregatura.
La diversità che a livello teorico riconosciamo come fonte di stimolo e motore del cambiamento, nel quotidiano diventa un gran complicazione.
Nessuno ci ha dato indicazioni chiare su come si fa a far andare d’accordo una squadra, e tanto meno come si fa ad andare in disaccordo.
Mi è piaciuto molto un pezzo della Harvard Business Review intitolato “Perché dovremmo essere più in disaccordo al lavoro”. Sembra una provocazione, invece è un essenziale (e utile) manuale di gestione dei disallineamenti comunicativi che possono derivare da punti di vista diversi e da regole non scritte a cui ci atteniamo (e che non è detto funzionino davvero).
È più semplice etichettare chi ha un’opinione differente dalla nostra come un rompiscatole o un testardo, e decidere che la soluzione migliore è quella di circumnavigare il confronto, invece che affrontarlo.
Ma la diversità di opinioni è inevitabile. Di più, è indispensabile.
È fonte di nuove soluzioni, perché se ciascuno cerca di portare avanti il proprio approccio in modo costruttivo quello che ne può emergere è un efficace 1+1=3.
È uno stimolo a evolversi, perché ci sposta dal dare per scontate una serie di informazioni e ci spinge a osservarle come se le vedessimo per la prima volta.
È elemento base della fiducia, perché avere un parere sincero diventa più importante di sentirci dare ragione.
Per imparare che andare d’accordo non è un fine, ma un mezzo. Che concordiamo o ci scontriamo sulle idee, non sulle persone.
“In un team i cui membri hanno caratteristiche anche molto differenti, il disaccordo non deve necessariamente diventare una questione personale: le idee hanno i loro meriti e le loro possibilità di correlazione, oppure non li hanno. Tutto qui” (Anesa Parker, Carmen Medina, and Elizabeth Schill – University of Toronto)
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