Se il primo passo del cambiamento è decidere di buttarsi, andando oltre il timore di renderci ridicoli e di non corrispondere alle aspettative esterne che diamo ormai per scontate, il secondo è sfidare la paura di sprecare quello che abbiamo fatto.

Chissà perché ci hanno convinto che per cambiare bisogna per forza tirare una riga e cancellare tutto quello che c'è stato prima.

Mentre per evitare di vagare senza direzione, è essenziale partire proprio da dove sei in questo momento.

Un tema a cui sono tornata più volte leggendo "Travel As Transformation: Conquer the Limits of Culture to Discover Your Own Identity” di Gregory Diehl, un libro che mi ha in egual misura affascinato e infastidito, a metà tra spunti di riflessione che ho trovato interessanti e una certa supponenza che a tratti mi provocava un moto di rifiuto, per cui chiudevo il libro per riprenderlo magari dopo qualche settimana.

Forse non era la sua risposta a infastidirmi, ma la resistenza ad affrontare la domanda che ci stava dietro.

Chi sei davvero?

“Spero sia stata una splendida giornata”, diceva il messaggio di Daniela. Stavo per rispondere che, in realtà, ero un po’ triste. Poi ci ho pensato meglio, e ho realizzato che triste non era la parola che descriveva il miscuglio di emozioni che avevo in quel momento nella pancia.

Mi sentivo malinconica, pensierosa, forse un po’ delusa. Non triste.

D’altra parte il linguaggio che servirebbe per raccontare le nostre emozioni sembra essere una lingua straniera che non conosciamo.

E, d’altra parte, nessuno ce l’ha mai insegnata davvero.

Quando ad agosto, in un tuffo nel passato di famiglia, ho scoperto che il mio bisnonno era un geografo e ho trovato il suo (nel senso che era uno degli autori) atlante appuntato a mano, mi ero ripromessa che stavolta avrei fatto il lavoro per bene.

A ogni partenza, mettere nello zaino la mappa della strada che sto per percorrere è diventato un rito.

Invece quando sono partita per Houston, avevo solo una riga a pennarello che tracciava il contorno del Texas , una macchina affittata per qualche giorno e nessun itinerario preciso, solo un punto di arrivo quasi al confine con il Messico dove avrei trascorso una settimana a studiare.

Ma ero contenta di avere con me quel foglio perché avevo deciso che con il passare dei giorni, dei chilometri e dei luoghi, sarebbe diventato la mia mappa delle parole belle.

È la terza volta che passo per il Texas, ma non posso certo dire di conoscerlo. Forse di avere raccolto qualche tessera in più del puzzle, ma non so se questo fa più chiarezza, o più confusione.

La prima volta ci sono arrivata per partecipare a un matrimonio. Che si sa che sono allergica a tutte le cerimonie, e in realtà io gli sposi nemmeno li conoscevo. Ma figuriamoci se mi facevo scappare l’opportunità: Dallas, la comunità italo-americana, le enormi case dei suburbs, i festeggiamenti fino a tarda notte.

La seconda volta ero a nord, lungo la traccia della Route 66, attraverso cittadine che si aggrappano alla nostalgia di un passato di vacanze fatte caricando la famiglia in auto e guidando giornate intere, di un’iconografia pop che cerca di sopravvivere nei motel restaurati e nei menu dei diner, lungo una strada uguale a se stessa da mezzo secolo.

E stavolta, la terza, non lo so ancora cosa cercavo nelle centinaia di miglia che ho percorso andando sempre più a ovest. Partendo da svincoli a otto corsie, attraversando pianure interrotte da edifici simili a sogni, o miraggi, arrampicandomi fino al buio per vedere le stelle, rincorrendo la meraviglia che solo la natura mi sa regalare.

Di certo so che sono venuta fin qui per Brené Brown.

La Via del Volto Santo, da Pontremoli a Lucca attraverso Lunigiana e Garfagnana. Qui, Piazza al Serchio

La mia Via del Volto Santo, a dirla tutta, inizia ben prima di muovere il primo passo da Pontremoli.

Nell’immaginazione lo aveva fatto quattro anni fa, quando l'avevo sentita nominare per la prima volta entrando nel Duomo di Lucca dove, appunto, è custodito il Volto Santo, Cristo ligneo da cui questo cammino prende il nome.

Il secondo tassello lo avevo messo verso la fine della Via degli Abati, in cima al crinale che mi avrebbe dato accesso alla Val di Magra, in una telefonata per chiedere consigli e suggerimenti su questo cammino ancora poco frequentato.

Perché se conosci qualcuno che di cammino ne sa più di te, puoi essere sicura che riceverai la dritta che ti serve. "Ho preallertato il mio uomo a Pontremoli che potresti arrivare, se hai bisogno chiamalo".

E io chiamo. 

Camminare lungo la Via degli Abati, cinque Valli attraverso gli Appennini da Pavia a Pontremoli

La guida alla Via degli Abati l'avevo comprata più di un anno fa. Mi aggiravo tra gli stand del Salone del Libro di Torino, dove ero finita per un progetto in cui mi ero lasciata coinvolgere con entusiasmo ma che si iniziava a capire che non avrebbe portato lontano. Di buono, però, questo progetto improbabile aveva portato l’opportunità di trovarmi lì, a fare avanti e indietro tra le corsie di libri di ogni genere. Avevo superato rapidamente la zona bambini, ignorato i fantasy, resistito ai libri di fotografie che poi non sai dove mettere. E mi ero riempita la borsa di guide di cammino.

Sarà che quell'idea mi era proprio rimasta in testa.

Scegliere un percorso in cui puoi partire direttamente dalla porta di casa, chiudendo la porta dietro di te per iniziare a camminare.

[la prima parte del mio weekend a Berlino invece la trovi qui]

Che poi non lo so nemmeno, se Berlino mi è piaciuta.

Non mi è piaciuta nel senso di Roma, che ogni volta che passavo di fianco al Colosseo al tramonto mi commuovevo come la prima volta.

Non mi è piaciuta nel senso di New York, in cui cercavo di sbirciare dalle finestre per immaginare come potesse essere davvero una vita lì.

Berlino è un mosaico, e sono certa che se parlassi con dieci (o cento) persone che l’hanno visitata, ciascuna mi racconterebbe una città diversa.

Sono arrivata seguendo le tracce dei ricordi felici di chi questa città la ama, o la vive, o entrambe. Una volta segnati i punti di riferimento sulla mappa, però, la strada l’ho scelta io. Aggiungendo tappe, allineandole per dar loro un senso, lasciandomi distrarre dai dettagli che attiravano la mia attenzione.

Berlino non è tedesca, anzi forse non esiste nemmeno. 

Ho sentito parlare inglese, turco, russo e chissà quante lingue. Ho mangiato greco, israeliano e sudanese. L’ho attraversata in bicicletta, dalle linee nette delle architetture di Potsdamer Platz fino all’ex aeroporto di Tempelhof, dove puoi correre lungo le vecchie piste di decollo. Ho camminato inseguendo la musica di un pianista sul Landwehr Canal, di un chitarrista a Unter den Linden, di un (eccezionale) fisarmonicista sotto le anonime volte di una stazione della metropolitana.

Ma, soprattutto, ho seguito il muro.

Ci sono città che sembrano immediatamente raccontarci un paesaggio interiore che nemmeno conoscevamo. Ho messo piede a New York per la prima volta meno di due mesi dopo la laurea. Era una preistoria senza rete e senza l’ubiquità delle immagini condivise, ero una viaggiatrice impacciata al suo primo volo intercontinentale - ma mi è sembrato di riconoscerla subito, come se aspettasse proprio me. Sono arrivata a Santiago del Cile con quasi il doppio degli anni e uno zaino molto più leggero, e dopo pochi passi mi pareva che la città mi avesse già abbracciato, invitandomi a fermarmi per conoscerci meglio.

Berlino la corteggiavo da sempre, prima con negli occhi quelle immagini di gioia pura della libertà, poi immaginando che ci sarei stata per correre la sua maratona, una delle più famose e veloci al mondo. 

Invece ho scelto un weekend a caso, ho comprato un volo low cost, e sono partita.

Donne della prefettura di Kagawa preparano udon da distribuire ai pellegrini - anche questo è nirvana!

Ma voi lo sapete cosa vuol dire nirvana?

Lo chiedo perché la quarta e ultima prefettura, quella di Kagawa, rappresenta quella parte del percorso che ha permesso a Kobo Daishi di raggiungere questo stato perfetto di pace e felicità.

Ma io di nirvana ne sapevo ben poco, associandolo a un generico senso di pace e benessere dato dal superamento di tutto ciò che è materiale e transitorio. Così, tanto per cominciare, sono andata a cercarla nel dizionario:

nirvana s. m. dal sanscrito nirvāṇa «estinzione»

E chi se la aspettava, questa? Certo, il distacco dalle cose terrene, dalle passioni che ci dominano rendendo il più delle volte la nostra vita un gran casino. Ma da qui ad arrivare all'idea di estinzione, mi sembrava ci fosse ancora un bel salto concettuale.

Però, in fondo, qual è l'effetto di migliaia e migliaia di passi messi uno in fila all'altro?