Ormai è più di un anno che non corro. Cioè, non è esatto dire che non corro, nel senso vero e proprio del termine. Almeno tre volte a settimana mi butto giù dal letto, mi infilo le scarpe e faccio il mio giro. Ma corro poco, corro per abitudine, corro senza grande gioia.

Della potenza delle abitudini, d’altra parte, mi accorgo soprattutto quando sono stanca.

Per me essere stanca significa prima di tutto essere scarica di testa, perché da tempo ho capito che invece il sensore che indica la fatica fisica deve essere staccato o rotto, forse non è mai esistito o per lo meno non l'ho mai ascoltato. Ma, come chiunque, non posso certo fare finta di non essere mentalmente affaticata, ultimamente.

Non c’è da stupirsi, che abitudine e stanchezza interagiscano così. Il meccanismo alla base della ripetizione automatica parte infatti proprio da lì: il nostro cervello consuma almeno un quinto di tutta l’energia del nostro metabolismo basale. E questo quando siamo a riposo. Immaginiamoci cosa succede quando i pensieri ci sembrano un bandolo da districare.

Così, il cervello ama le abitudini perché gli permettono di risparmiare, tanto che si calcola che il numero di azioni che svolgiamo in automatico sia vicino all’80% di tutto ciò che facciamo in una giornata media.

Il problema è che il meccanismo della routine, o della comfort zone, rassicurandoci nella ripetizione di ciò che conosciamo, inizia con l’obiettivo (positivo) di minimizzare i pericoli, ma rischia in realtà di diventare un vincolo ingiustificato, una distorsione cognitiva che, proprio come uno specchio deformante, ci permette di vedere la realtà attraverso un unico filtro.

E non è detto che sia il filtro migliore.

Mia madre ha sempre avuto un buon rapporto con la tecnologia. Negli anni '80 era stata scelta (o si era offerta, chissà, in effetti non gliel’ho mai chiesto) per essere tra i primi dell’ufficio a utilizzare un computer. Ho ancora una ricordo di quei manuali voluminosi e scritti troppo fitti, con cui stava imparando a usare il DOS.

Allora più che altro mi divertiva poi poter giocare ai primi videogame, in quella mezza’ora in cui mi doveva tenere in ufficio quando non sapeva dove piazzarmi. Oggi sono molto grata di questa sua dimestichezza - perché se a volte la strapazzo un po’ quando mi dice “il computer ha fatto”, dall’altra vederla che si destreggia così bene tra una chiacchierata via whatsapp con le amiche e un (per me pesantissimo, ma contenta lei contenti tutti) seminario via zoom ha reso senza dubbio meno complicato la trasformazione che abbiamo attraversato negli ultimi dodici mesi.

Alla fine mi viene da dire che si sia dimostrata più adattabile lei di me.

Che, certo, online ci devo stare per lavoro. Ma che in generale mi sento talmente saturata da sottrarmi poi a quello che non sia strettamente necessario di questa che continuo a percepire come una vita surrogata

Di Zoom fatigue si è parlato quasi subito: nel confronto mediato dallo schermo e complicato dai vincoli della linea dati, dobbiamo impegnare uno sforzo aggiuntivo per cogliere (spesso in un quadratino di pochi centimetri di lato) segnali non verbali, espressioni e inflessioni della voce, dobbiamo gestire la dissonanza tra la sensazione di essere insieme con la mente ma non con il corpo.

Dicono sia “il settembre più settembre che ci sia mai stato”, e tanto per non sbagliare continuo a camminare. 

Sono fortunata.

La verità è che io, quest’anno, non avevo voglia di viaggiare.

Per lo meno rispetto ai miei parametri.

Non avevo voglia di partire da zero, di prendere un volo che mi catapultasse lontano, in un luogo dalla lingua straniera e dalle abitudini sconosciute.

Non è una cosa del tutto anomala, mi era capitato già in passato. Dopo viaggi particolarmente intensi, in cui mi era sembrato di raccogliere talmente tanti stimoli e spunti da provare il bisogno fisico di concedere loro il tempo necessario a sedimentare, depositarsi come la polvere che fluttua alla luce in un mulinello di vento.

Stavolta, però, c’era qualcosa di diverso. Che credo abbia a che fare con il viaggio da sola, e con il viaggio lento.

Ogni volta che Martina apre bocca, non riesco a trattenere un sorriso.

Alta e bionda come nell'immaginario solo le nordiche, dopo tanti anni mescola nel suo accento e nelle storie che racconta i suoni della lingua madre con l'inflessione umbra, in un'amalgama improbabile quanto accogliente. Si è svegliata apposta per me, come ieri sera è rimasta per prepararmi la cena. L'Angoletto vive dell'imprevedibile flusso dei turisti che arrivano a Pale: gli appassionati di arrampicata che affrontano le pareti di roccia verticale, le famiglie che passano una domenica al fresco delle cascate del Menotre. Una sera si può fare mezzanotte, la successiva ci sono solo io. E come ci è finita, Martina, dalla Danimarca all'Umbria? "L'ho trovato 30 anni fa, questo gioiello", mi dice.

Il gioiello in questione è Carlo, di cui ieri ho visto poco più della testa di ricci ormai quasi del tutto grigi e i gesti un po' impacciati con cui mi lasciava alle cure della compagna. Sono a Pale da cinque anni, in qualche modo è stato un ritorno, i nonni di Carlo possedevano uno dei numerosi mulini che fino a inizio Novecento sfruttavano le acque del fiume. Adesso lui cucina, lei segue clienti e organizzazione, quando arriva qualcuno che decide di fermarsi per la notte tira fuori un piumone, che sa che nella notte il vento si alza.

Ieri mi ha consigliato di andare fino alla piazzetta da cui quando scende la sera si vede l'eremo illuminato, stamattina quando le chiedo un timbro per la credenziale prende la penna e mi disegna i motivi per cui questo posto l'ha chiamata: la montagna con i suoi colori che cambiano con le stagioni, l'acqua che scorre a formare quelle cascate che sembrano risate fresche, la strada che porta sempre nuovi incontri e nuove storie.

È il primo giorno di marcia sul Cammino Francescano della Marca.

E Martina è la conferma della sensazione che, a quanto pare, stavolta l'identità e la voce che sto cercando la troverò avvicinandomi, e ascoltando le storie che incontrerò.

La sala d’attesa è luminosa, ma non della luce calda che si immagina adesso che la primavera è arrivata, con il sole che scalda la schiena attraverso le finestre spalancate. 

La sala d’attesa è lucida di metallo, con le sue seggiole allineate lungo le pareti. Qualcuno sfoglia una rivista, qualcuno scorre le notizie sul cellulare. La sensazione, per tutti, è quella di star perdendo ancora tempo.

La sala d’attesa è silenziosa, la porta da cui siamo entrati chiusa alle nostre spalle, quella di fronte ostinatamente chiusa.

Io me la immagino così, la metaforica sala d’attesa in cui siamo seduti in questo momento. Quella che si trova tra il prima e il dopo, tra la fine e l’inizio. Quella che ci racconta il pezzo di storia che nessuno ci aveva mai detto, o che non avevamo capito, o voluto capire.

La sala d'attesa della transizione.

Dell’anno bisestile, in realtà, sapevo solo una cosa.

Anno bisesto, anno funesto - si dice.

In effetti il 2020 non è che sia partito benissimo, con questo coprifuoco per mezza Italia e scene da apocalisse in corso causa timore da virus.

I precedenti? Sono di memoria corta, quando si tratta di quello che non funziona, quindi faccio un po’ fatica a dire come sono andati i precedenti anni bisestili.

Mi sforzo e provo a riavvolgere il nastro.

Io sono quella che si annoia.

Quella che quando le cose vanno in automatico, allora è il momento di provare qualcosa di diverso. Quella che alza la mano quando c’è da seguire un nuovo progetto, ma quando serve la costanza di monitorare il processo lascia volentieri il posto a un altro. Quella che a un certo punto ha deciso di cambiare lavoro perché stava troppo bene, mentre un posto dove “c’è da fare tutto” sembrava la prospettiva più attraente che potesse esistere.

Ricordo ancora un giorno di qualche anno fa, ferma in coda nel traffico - avevo corso qualche maratona, scoperto da poco il trail running, pensavo che il triathlon fosse un po’ troppo ma, magari, il duathlon di corsa e bicicletta… E, a un tratto, mi sono fermata a riflettere su questo mio bisogno di provare, cercare, sperimentare.

Non sarebbe più sensato focalizzare le energie in una sola direzione, scegliere cosa voglio in modo sequenziale, e cercare di farlo davvero bene?

Non lo so.

"Camminano le monache nel chiostro: vanno e vengono, avranno impegni da svolgere, luoghi da raggiungere… come te, i tuoi amici, gli uomini che incontri. Eppure è un camminare diverso, perché tu hai una meta da raggiungere, e poi ne avrai altre, e altre… Le mie sorelle e io siamo già nella meta della nostra vita.”

Da inizio anno ho ripreso a leggere La Via dell’Artista, libro della scrittrice e sceneggiatrice Julia Cameron che parte dall’assunto che essere creativi non sia un talento concesso solo ad alcuni, o un capriccio che la maggior parte di noi deve mettere da parte per diventare un adulto serio e responsabile ma, al contrario, la naturale inclinazione di ogni essere umano, un dono che riceviamo e che saremmo irresponsabili ed egoisti a non mettere a disposizione del mondo.

La prima volta che ho letto questo libro-manuale, e che ho applicato il metodo che propone per “sbloccarci” dal nostro status di resistenza anti-creativa, sono successe almeno un paio di rivoluzioni. 

Skyline di Brisbane con l'iconica scritta illuminata dal sole estivo

Poco prima di partire per l'Australia, appena prima di Natale, ho fatto un colloquio di lavoro. Un progetto interessante, di quelli a cui avevo sempre immaginato un giorno di poter lavorare. Una sfida, la possibilità di prendere quello che ho imparato e usarlo per costruire qualcosa da zero, la mia costante ricerca di avere un impatto concreto e visibile.

Una bella tentazione, dove però si fronteggiano due aspetti essenziali della mia valutazione delle scelte di vita.

Tempo, denaro.

La paura di non averne abbastanza, la sensazione che si volatilizzino senza che nemmeno ce ne rendiamo conto.

Esistono due temi che, combinati, siano più universali?