Gennaio è partito come sempre: con l’agenda organizzata e pronta per i progetti pianificati per il nuovo anno.

Poi una alla volta le caselline colorate dell’agenda hanno iniziato a saltare, a slittare, a dileguarsi. Ora, non che la cosa non succedesse anche in azienda: idee che sembravano così interessanti da dover essere realizzare immediatamente - e che invece si sono impantanate chissà dove, travolte dalle urgenze o dai cambi di direzione.

Solo che, quando lavori in proprio, le battute d'arresto sembrano molto più brusche.

Perché in azienda i buchi dell’agenda sembrano riempirsi come per magia. C’è sempre qualcosa da fare, qualcuno che ti chiede una mano. E, nella peggiore delle ipotesi, c’è sempre l’archivio di sistemare. 

Non è che adesso abbia meno cose da fare. Anzi.

Gli spazi liberati dalle attività contingenti dovrebbero essere una manna dal cielo, fondamentali per mettere le fondamenta per i piani a medio o a lungo termine.

Io sono quella che si annoia.

Quella che quando le cose vanno in automatico, allora è il momento di provare qualcosa di diverso. Quella che alza la mano quando c’è da seguire un nuovo progetto, ma quando serve la costanza di monitorare il processo lascia volentieri il posto a un altro. Quella che a un certo punto ha deciso di cambiare lavoro perché stava troppo bene, mentre un posto dove “c’è da fare tutto” sembrava la prospettiva più attraente che potesse esistere.

Ricordo ancora un giorno di qualche anno fa, ferma in coda nel traffico - avevo corso qualche maratona, scoperto da poco il trail running, pensavo che il triathlon fosse un po’ troppo ma, magari, il duathlon di corsa e bicicletta… E, a un tratto, mi sono fermata a riflettere su questo mio bisogno di provare, cercare, sperimentare.

Non sarebbe più sensato focalizzare le energie in una sola direzione, scegliere cosa voglio in modo sequenziale, e cercare di farlo davvero bene?

Non lo so.

Quando me lo chiedono, la risposta dipende dall’umore della giornata.

"Poi mi devi spiegare bene cosa fai”.

Se la interpreto come una domanda di circostanza, dico che faccio la consulente, figura allo stesso tempo abbastanza nebulosa da comprendere una varietà di sfaccettature e sufficientemente nota da risultare una definizione “socialmente accettabile.

Se ci leggo invece un reale interesse a districarsi tra le mille attività che faccio e (in parte) condivido all'esterno, spesso finisco a raccontarmi come se fossi un’azienda, con le sue linee di business differenziate a seconda del servizio e dell’interlocutore.

A volte vorrei rispondere che sono una viaggiatrice, una collezionista di storie, una ricercatrice di sfumature nelle parole, una donna con gli occhi stupiti da bambina.

Non so se, come diceva Walt Whitman “contengo moltitudini”, ma spesso mi pare che la situazione dentro alla mia testa sia piuttosto affollata.

Mi stavo a malapena riprendendo dallo shock di veder festeggiare il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino e, subito dopo, da quello di rendermi conto che il mio precedente viaggio in Australia era “diventato maggiorenne”, che mi sono imbattuta in un post dal titolo “It’s 2020 and you’re in the future.

Senza alcuna pietà, l'autore mi ricordava che l’uscita di film come Jurassic Park Forrest Gump è più vicina all’allunaggio che al presente, che chi ha almeno 35 anni è più vicino al 1940 che a oggi, che chi nascerà quest'anno ha buone probabilità di arrivare a vedere il prossimo, di secolo.

Solo un attimo fa questo 2020 ci sembrava un futuro così lontano, ma cosa è rimasto di quello che ce ne immaginavamo?

Non credo di aver mai viaggiato tanto come quest’anno. Sarà che nel precedente ero rimasta praticamente ferma, un po' perché reinventare la propria vita richiede tutte le energie a disposizione per definire nuovi punti di riferimento, un po’ perché ero talmente presa dall’osservare il mondo che cambiava intorno a me, e il cambiamento che vivevo in mezzo a questo turbine, che quasi avevo scordato il desiderio di cercare la prospettive di latitudini diverse.

Quest’anno sono stata a Malta, Berlino e Bilbao.

In Giappone e in Texas.

A Torino e Trieste, Bologna e Venezia, Genova e Trento, Rimini e Firenze. 

Sto sperimentando la vita che volevo, quella per cui ho scelto di lasciare il lavoro in azienda e di esplorare un modo alternativo di fare le cose. Quella in cui ho imparato a distinguere tra raggiungere un obiettivo (che però magari è di qualcun altro) e darsi un obiettivo (e, subito dopo, concretizzarlo).

Per certi versi questo è stato un anno di grande successo. Per altri, ho ancora un sacco di passi da fare.

Francesca vorrebbe un po’ di tempo per frequentare qualche corso, per uscire a fare una passeggiata, magari per sdraiarsi sul divano a leggere un libro. O per fissare il soffitto, o addirittura per tenere gli occhi chiusi e non pensare a niente.

Giovanna lavorava in un posto che non le dava né soddisfazione né uno stipendio degno di questo nome. Dell’essere freelance ha accolto con entusiasmo la possibilità di seguire tre progetti che più diversi l’uno dall’altro non si potrebbe. Ma spesso mi scrive a notte fonda, perché quando il tempo di giorno non basta è così facile non dormire per recuperare un po’.

In fondo, io che punto alla 25esimaora non ho nemmeno esagerato.

Sempre più persone si ritrovano a sognare giornate fatte di 48 ore, o anche di più.

Cosa succede a tutto il tempo che abbiamo a disposizione?

Quando ad agosto, in un tuffo nel passato di famiglia, ho scoperto che il mio bisnonno era un geografo e ho trovato il suo (nel senso che era uno degli autori) atlante appuntato a mano, mi ero ripromessa che stavolta avrei fatto il lavoro per bene.

A ogni partenza, mettere nello zaino la mappa della strada che sto per percorrere è diventato un rito.

Invece quando sono partita per Houston, avevo solo una riga a pennarello che tracciava il contorno del Texas , una macchina affittata per qualche giorno e nessun itinerario preciso, solo un punto di arrivo quasi al confine con il Messico dove avrei trascorso una settimana a studiare.

Ma ero contenta di avere con me quel foglio perché avevo deciso che con il passare dei giorni, dei chilometri e dei luoghi, sarebbe diventato la mia mappa delle parole belle.

Non so se ho sempre avuto una passione per le parole, o se è venuta con il tempo e con il lavoro che sono capitata a fare. Persone ogni giorno nuove che mi parlavano di sé, fin da quando facevo colloqui seduta nel front office di un’Agenzia per il Lavoro, persone ogni giorno diverse in tutto quello che è successo dopo. Ho sempre trovato naturale, mentre ascoltavo, prendere appunti su ciò che mi appariva importante, che mi diceva qualcosa. Riportare le parole che sembravano risuonare maggiormente, non perché fuori contesto, ma per come erano pronunciate. Scelta, successo, ambizione, soldi, leadership, famiglia. Ne ho sentite a decine, negli anni. 

Mai scelte per caso.

Dire che le parole costruiscono il nostro mondo non è un’esagerazione. Non in senso letterale, certo. Ma raccontano in modo più chiaro di quanto possiamo immaginare quello che nel tempo abbiamo inconsciamente fatto nostro, i limiti che vediamo o che ci imponiamo da soli, la visione della vita e delle persone con cui abbiamo a che fare. Forse è anche questo che mi ha attratto della ricerca di Brené Brown, e che mi ha portato fino in Texas per studiare e certificarmi con lei.

Perché nel mondo del lavoro il bisogno di riappropriarsi del senso delle parole è forse più urgente che mai.

È la terza volta che passo per il Texas, ma non posso certo dire di conoscerlo. Forse di avere raccolto qualche tessera in più del puzzle, ma non so se questo fa più chiarezza, o più confusione.

La prima volta ci sono arrivata per partecipare a un matrimonio. Che si sa che sono allergica a tutte le cerimonie, e in realtà io gli sposi nemmeno li conoscevo. Ma figuriamoci se mi facevo scappare l’opportunità: Dallas, la comunità italo-americana, le enormi case dei suburbs, i festeggiamenti fino a tarda notte.

La seconda volta ero a nord, lungo la traccia della Route 66, attraverso cittadine che si aggrappano alla nostalgia di un passato di vacanze fatte caricando la famiglia in auto e guidando giornate intere, di un’iconografia pop che cerca di sopravvivere nei motel restaurati e nei menu dei diner, lungo una strada uguale a se stessa da mezzo secolo.

E stavolta, la terza, non lo so ancora cosa cercavo nelle centinaia di miglia che ho percorso andando sempre più a ovest. Partendo da svincoli a otto corsie, attraversando pianure interrotte da edifici simili a sogni, o miraggi, arrampicandomi fino al buio per vedere le stelle, rincorrendo la meraviglia che solo la natura mi sa regalare.

Di certo so che sono venuta fin qui per Brené Brown.