Yuba lunch in Nikko Confesso. Ero tentata dall'idea di scrivere un intero post sulla fenomenologia delle riproduzioni in plastica dei piatti, che qui in Giappone funestano le vetrine della maggior parte dei ristoranti, persino quelli dove poi si mangia bene. Ma forse è meglio cominciare invece dal principio.

Non è il primo viaggio in un luogo in cui non solo non conosco la lingua, ma anche la scrittura è un ostacolo a qualsiasi ipotesi di interpretazione.

Eppure stavolta, arrivata a Tokyo nel caos di Akihabara, tra le insegne luminose e la folla della domenica pomeriggio a passeggio, ho avuto un attimo di spaesamento, come se fossi in una bolla che non poteva in alcun modo trovare un contatto con l'esterno.

Non avere un linguaggio comune mi ha fatto trascorrere intere giornate in un silenzio quasi assoluto.

Se io non conosco una parola della loro lingua, i giapponesi da parte loro pare che con l'inglese siano in una relazione complicata. C'è chi se la cava, ma a modo suo - ed ecco così frasi, probabilmente frutto della traduzione letterale di espressioni locali, che in inglese suonano decisamente comiche. C'è chi ha invece imparato a memoria le sole espressioni che gli servono nei confronti del turista di turno - sa quindi dare una spiegazione purché non preveda alcuna interazione di ritorno. E poi c'è chi, semplicemente, l'inglese non lo sa e sta bene così.