È la terza volta che passo per il Texas, ma non posso certo dire di conoscerlo. Forse di avere raccolto qualche tessera in più del puzzle, ma non so se questo fa più chiarezza, o più confusione.

La prima volta ci sono arrivata per partecipare a un matrimonio. Che si sa che sono allergica a tutte le cerimonie, e in realtà io gli sposi nemmeno li conoscevo. Ma figuriamoci se mi facevo scappare l’opportunità: Dallas, la comunità italo-americana, le enormi case dei suburbs, i festeggiamenti fino a tarda notte.

La seconda volta ero a nord, lungo la traccia della Route 66, attraverso cittadine che si aggrappano alla nostalgia di un passato di vacanze fatte caricando la famiglia in auto e guidando giornate intere, di un’iconografia pop che cerca di sopravvivere nei motel restaurati e nei menu dei diner, lungo una strada uguale a se stessa da mezzo secolo.

E stavolta, la terza, non lo so ancora cosa cercavo nelle centinaia di miglia che ho percorso andando sempre più a ovest. Partendo da svincoli a otto corsie, attraversando pianure interrotte da edifici simili a sogni, o miraggi, arrampicandomi fino al buio per vedere le stelle, rincorrendo la meraviglia che solo la natura mi sa regalare.

Di certo so che sono venuta fin qui per Brené Brown.

Non credo sia una parola che esiste davvero, ma la prima volta che Manuela l’ha usata non ho potuto che pensare fosse perfetta. Doverismi.

Li conosciamo tutti, anche se magari non li chiamiamo così.

I doverismi non sono costrizioni, che pesano sulle spalle come un giogo sotto cui, a seconda del carattere e del momento, ci divincoliamo per sfuggire o ci incurviamo un po’, per sostenerne meglio il peso. Non sono nemmeno leggi o regole scritte nero su bianco, che se infrante portano delle conseguenze al benessere collettivo o personale.

I doverismi sono molto più subdoli, perché ce li inventiamo noi.

[la prima parte del mio weekend a Berlino invece la trovi qui]

Che poi non lo so nemmeno, se Berlino mi è piaciuta.

Non mi è piaciuta nel senso di Roma, che ogni volta che passavo di fianco al Colosseo al tramonto mi commuovevo come la prima volta.

Non mi è piaciuta nel senso di New York, in cui cercavo di sbirciare dalle finestre per immaginare come potesse essere davvero una vita lì.

Berlino è un mosaico, e sono certa che se parlassi con dieci (o cento) persone che l’hanno visitata, ciascuna mi racconterebbe una città diversa.

Sono arrivata seguendo le tracce dei ricordi felici di chi questa città la ama, o la vive, o entrambe. Una volta segnati i punti di riferimento sulla mappa, però, la strada l’ho scelta io. Aggiungendo tappe, allineandole per dar loro un senso, lasciandomi distrarre dai dettagli che attiravano la mia attenzione.

Berlino non è tedesca, anzi forse non esiste nemmeno. 

Ho sentito parlare inglese, turco, russo e chissà quante lingue. Ho mangiato greco, israeliano e sudanese. L’ho attraversata in bicicletta, dalle linee nette delle architetture di Potsdamer Platz fino all’ex aeroporto di Tempelhof, dove puoi correre lungo le vecchie piste di decollo. Ho camminato inseguendo la musica di un pianista sul Landwehr Canal, di un chitarrista a Unter den Linden, di un (eccezionale) fisarmonicista sotto le anonime volte di una stazione della metropolitana.

Ma, soprattutto, ho seguito il muro.

Ci sono città che sembrano immediatamente raccontarci un paesaggio interiore che nemmeno conoscevamo. Ho messo piede a New York per la prima volta meno di due mesi dopo la laurea. Era una preistoria senza rete e senza l’ubiquità delle immagini condivise, ero una viaggiatrice impacciata al suo primo volo intercontinentale - ma mi è sembrato di riconoscerla subito, come se aspettasse proprio me. Sono arrivata a Santiago del Cile con quasi il doppio degli anni e uno zaino molto più leggero, e dopo pochi passi mi pareva che la città mi avesse già abbracciato, invitandomi a fermarmi per conoscerci meglio.

Berlino la corteggiavo da sempre, prima con negli occhi quelle immagini di gioia pura della libertà, poi immaginando che ci sarei stata per correre la sua maratona, una delle più famose e veloci al mondo. 

Invece ho scelto un weekend a caso, ho comprato un volo low cost, e sono partita.

Mille colori, mille forme, mille possibilità - la mia idea di armonia

La prima volta in Giappone è stata un caso, e non ricordo che idea ne avessi prima di metterci piede. Un puzzle immaginario di tecnologia e velocità moderna da un lato, di armonia e delicatezza della tradizione di geishe e samurai dall'altro.

Per molti versi, quello che ho trovato mi ha spiazzato. Non riuscivo a “mettere insieme i pezzi” di quello che osservavo. Perché cercavo di incastrarli nella cornice del mio punto di vista, occidentale e ben poco consapevole della cultura che stava dietro agli atteggiamenti, ai gesti, alle abitudini che vedevo attorno a me.

Così sono tornata. Non molto più preparata della volta precedente, ma cercando di lasciare a casa gli schemi troppo rigidi.

Scegliere un viaggio lento permette di entrare un passo alla volta (è il caso di dirlo) in un mondo totalmente altro.

Non ancora - La stanza degli scrittori alla Scuola Holden di Torino

Quando ho cambiato lavoro per la prima volta, mi sono regalata una vacanza. Dopo l’impegno di affiancare e formare la persona che mi avrebbe sostituito, e prima di iniziare un nuovo ruolo di cui ancora non sapevo niente, la soluzione perfetta sembrava quella: una settimana in villaggio. Nessun pensiero, nessuna decisione da prendere. La spiaggia, il mare, le escursioni, l’atmosfera rilassata. 

Dopo i primi due giorni ho iniziato a soffrire di claustrofobia. Infilavo le scarpe e iniziavo a correre. Superavo le recinzioni per inoltrarmi nelle strade di terra battuta del villaggio più vicino, o andavo sempre dritta seguendo la traccia che portava verso il deserto. Eppure nello spazio protetto del villaggio avevo a disposizione - teoricamente - tutto quello di cui potevo aver bisogno. La piscina e la palestra, le dune e le onde dell’oceano. Non faceva per me, ma non potevo saperlo finché non ci ho provato.

A volte, invece, non facciamo nemmeno un tentativo.

Ogni percorso iniziatico passa attraverso un qualche tipo di illuminazione, ma più che altro la mia settimana nella prefettura di Ehime è illuminata dal sole.

Un sole estivo, di quelli che al mattino rendono più semplice la partenza e a mezzogiorno invitano a una sosta all'ombra. È bello camminare così, anche se tornerò a casa con il volto e le braccia color biscotto e il resto del corpo pallido come sempre.

Con il passare delle settimane l'arrivo del giorno si è visibilmente anticipato, e così posso godermi l'ora che preferisco: quella poco dopo l'alba, in cui le città si stanno ancora svegliando, i ragazzi vanno a scuola in bicicletta, le persone si affacciano incuriosite al tuo passaggio.

Cammino nella luce che diventa più intensa, mi godo i paesaggi che cambiano e i miei pensieri che li seguono.

Un asinello dietro una grata: è considerato poco intelligente ma se invece fosse solo un diverso modo di capire?

Quando i bambini arrivano a sviluppare un uso autonomo del linguaggio, la prima cosa che vogliono fare è capire quel mondo intorno a loro di cui sanno ben poco.

La chiamano fase dei perché e la mia, a quanto pare, non è ancora finita.

Sono curiosa, cerco di non dare per scontate le cose, anche se ho qualche anno in più ho ancora bisogno di capire. Ho imparato che in una persona del tutto differente puoi scoprire il miglior alleato (altre volte invece continui a non trovare alcun punto di contatto, ma è pur sempre un rischio da correre) e mi godo pienamente la necessità che ho, come consulente, di studiare, approfondire, aggiornarsi.

Passo le mie giornate a comunicare. Scrivo, parlo, preparo presentazioni, vado in aula. Tra domande e risposte, ogni giorno sono circondata di parole. Per lavoro ascolto, ascolto un sacco.

Ma non è detto che questo mi abbia insegnato a capire.

Pensavo di essere una che fa, non una che pianifica.

Per la prima volta mi avevano assegnato un progetto tutto mio, ed era il momento della valutazione di fine anno con il nuovo capo. Avevo sempre avuto una routine ben delineata, e il rapporto con il responsabile era semplice: lui riceveva un compito, lo smistava alla squadra, e ciascuno faceva la sua parte senza troppe domande. Adesso che avevo provato cosa significa doversi dare autonomamente delle priorità, però, mi sentivo in difficoltà. Me l'ero cavata, ma non ero così certa di aver gestito al meglio la situazione. Lui, invece, aveva un’opinione diversa: riteneva che l’organizzazione fosse il mio punto di forza, e che l'azione ne fosse solo la conseguenza.

Ma chi pianifica e chi fa sono davvero mondi contrapposti?