Sentiero del Viandante: Esercizi per tenere il tempo e scoprire il proprio ritmo

Ho aperto gli occhi e dalla vetrata senza tende ho visto che il sole stava sorgendo su quella che si preannunciava una giornata di luce perfetta. Ho infilato le scarpe da trail e chiuso fino al collo la cerniera della giacca, anche se non ce n’era bisogno perché la temperatura era quasi primaverile. Non conoscevo il percorso e non avevo previsto di affrontarlo proprio quel giorno, ma avevo tutto il tempo per farlo. Senza troppi pensieri, senza troppe domande.

A volte ti svegli ed è semplicemente "il momento giusto per". 

Oltrepo Trail - Trail Running Academy

Ho saltato un’intera stagione, ma da un paio di mesi sono tornata sulle colline dell’Oltrepo Pavese con il mio gruppo.

Il

Mio

Gruppo.

Mi fa un certo effetto scriverlo. Sono un battitore libero, una la cui routine sportiva preferita è quella di uscire in solitaria alle sei di mattina.

Ma il trail è uno sport diverso, rispetto alla corsa su strada.

Certo, anche qui si macinano chilometri, si esce quando fuori è ancora buio, si fa fatica per giustificare il proprio desiderio di carboidrati. Ma qui c’è un senso scanzonato di non prendersi troppo sul serio, forse perché è difficile essere seri quando sei coperto di fango dalla testa ai piedi. Il trail ti rimette in pace con te stesso e con il mondo, forse per la bellezza dei paesaggi che attraversi o forse perché alla fine sei talmente stanco da aver dimenticato perché prima di iniziare eri incazzato, o stressato, o nervoso.

Soprattutto, il trail è uno sport di gruppo in cui vale una delle regole fondamentali della montagna: non si abbandona nessuno, quindi nelle uscite si va al passo del più lento.

Ma come imparare a scegliere meglio, come decidere quanto rischiare?

Giulia Peragine Hippocampo Films

A rendere così unico l’ippocampo non è solo la sua curiosa forma equina. A differenza della maggior parte degli altri pesci, i cavallucci sono monogami e compagni per la vita. E, caratteristica ancora più bizzarra, sono l’unica specie sulla terra in cui è il maschio a partorire i piccoli. 

La prima volta, più che vederli li ho sentiti. Un autobus in Argentina, su una tratta di quelle dove c’è poca gente, men che meno ci sono turisti. Mi ero sistemata in prima fila, davanti al finestrino panoramico, per godermi il viaggio fino a Cafayate: la salita immersi in una vegetazione quasi alpina, poi oltre il passo un deserto punteggiato di cardones, i giganteschi cactus simili a figure umane nella distesa arida. 

Invece poco dopo alle mie spalle erano arrivati loro: Giulia e Sebastian. Lei bolognese, lui argentino. E soprattutto, Léon, René e Milo, meno di 18 anni in tre, scuri occhi spalancati di curiosità, storie segrete e risate.

Qual è la tua unità di misura del valore?

Non ho mai pensato molto al mio rapporto con il denaro. Sono cresciuta in una famiglia in cui di soldi si parlava poco e, in qualche modo, questo mi ha lasciato la convinzione che il denaro non fosse poi così importante. O, per lo meno, che lo fosse solo in relazione a quello che permette di realizzare.

Un mezzo, non certo un fine.

Non mi sono mai posta la domanda se il mio stipendio fosse alto o basso in relazione alle mie competenze, al mio impegno, alle mie responsabilità. Mi chiedevo solo se lo stipendio che ricevevo fosse adeguato alla vita che volevo vivere, a permettermi l’indipendenza e di dedicarmi a ciò che mi appassionava.

Mi piacciono questi viaggi di notte.

Anche se c'è sempre quello che russa e anche se il termostato sembra invariabilmente bloccato su una temperatura caraibica  oppure su quella di un congelatore. Le vie di mezzo non sono contemplate, a quanto pare. Non a caso i viaggiatori abituali si sono presentati dotati di spesse coperte in cui avvolgersi. Io ho cercato di arrangiarmi con la giacca e per il resto ho semplicemente avuto freddo. Ma ho anche avuto le stelle, con Orione capovolto e le altre costellazioni di questo emisfero, che non so riconoscere ma che non per questo brillano meno. Ho avuto una luna piena che rischiarava la notte. Ho avuto l'alba sull'altopiano, la luce calda che si avvicina un passo alla volta, da dietro le montagne che bordano questa pianura a tremila metri di altezza.

Alla fine, ho deciso di saltare del tutto La Paz.

Fermi, in silenzio, ci scrutiamo.

Noi dietro al parabrezza, lui ben piantato in mezzo alla strada. Come nella più classica delle rappresentazioni lui, l'asino, mantiene cocciuto la sua posizione. E noi, tre tedeschi e un'italiana saltata all'ultimo sull'auto, non sappiamo esattamente come comportarci.

Ci avevo provato, a capire se era possibile arrivare a Cachi da Cafayate. Impossibile con i mezzi, il colectivo arriva fino a Molinos da un lato e ad Angastaco dall’altro. In mezzo, quaranta km raccontati come meravigliosi e selvaggi. I tour, certo. Accettando qualche compromesso in termini di gestione dei tempi del viaggio e di prezzo. Ma che non partono per una sola persona. Insomma, una piccola avventura.

E poi quel mattino, facendo colazione, sento i tre seduti al tavolo a fianco che nominano Cachi. Esito. Ho già pagato la stanza per la notte, ho già il biglietto per Salta per la mattina successiva. Però.

Chissenefrega.

Se la parola che ho scelto per questo 2017 è completa, forse Buenos Aires è proprio la città che faceva per me.

Tra i vari “prodotti derivati” del master in coaching, quello verso cui nutro probabilmente le sensazioni più contrastanti è legato all’opportunità di sperimentare gli esercizi che vengono poi utilizzati in sessione individuale o all’interno dei workshop. Non che sia obbligatorio, capiamoci. Ma, curiosa come sono, aver riscoperto il piacere di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo mi da grande soddisfazione. E da brava secchiona, assegnare invece un esercizio senza averlo provato in prima persona mi provoca sempre un po’ di ansia da prestazione. D’altra parte, l’effetto collaterale di un esercizio ben mirato è quello di portare nuove riflessioni, mostrare punti di vista differenti - il che raramente si realizza senza qualche piccolo scossone.

È appunto così che sono arrivata alla parola dell’anno. Ne avevo letto e sentito parlare, con differenti sfumature e modalità. E quando ho provato ad individuarne una per guidarmi nei successivi dodici mesi, mi ha dato esattamente quel momento di occavoloquestanonmelaspettavo che identifica un esercizio ben riuscito.

Ma, probabilmente era solo l’inizio.

Sono due anni che sono alla ricerca, e la sola cosa che ho capito è che è dannatamente faticoso.

La verità è che, ad un certo punto, mi sono resa conto per la prima volta che tra essere in grado di raggiungere un obiettivo e avere la capacità di definirlo, c’è un abisso. E se sono la persona giusta a cui dire “Si deve arrivare là” per essere certi che “là” sarà esattamente dove arriveremo, dovesse anche cascare il mondo, quando si tratta di individuare da zero il punto di arrivo sono invece una frana.

Qualche mese fa mi è venuta voglia di provare a disegnare. Non era uno dei miei passatempi da bambina. Mi rivedo sdraiata sul pavimento a costruire città e storie con i mattoncini. Ricordo infiniti pomeriggi ad esplorare il mondo al di là del muro di cinta, che scavalcavo attratta come da una calamita dal senso di mistero di ciò che non avevo ancora visto. O immersa nei libri di mia madre da ragazzina, immagine anche questa sconosciuta e lontana, di cui cercavo indizi in quelle pagine che aveva letto qualche decennio prima di me. Non mi sono mai considerata una persona creativa. Probabilmente perché associavo a questa parola l’idea di una legittimazione legata al riconoscimento pubblico ed economico. Chi ti credi di essere? Cosa credi di avere di così eccezionale? Non sei un genio e con la creatività non ci camperai mai, quindi puoi anche lasciar perdere prima di iniziare. Nessuno me lo ha detto in maniera esplicita, ma in qualche modo è quello che ho assorbito dall’ambiente in cui sono cresciuta. Bisogna studiare per avere bei voti, scegliere un lavoro solido, avere un obiettivo pratico. Dedicare le proprie energie a qualcosa di produttivo. Ed è esattamente quello che ho fatto. Poi un giorno sono tornata a casa con un album di fogli bianchi, una matita e una gomma. Ho cercato online un manuale con qualche spunto da cui partire. E ho iniziato. È strano, mettere mano ad un’attività dimenticata da chissà quanto tempo. È strano, mettere mano a qualcosa senza chiederti quale sarà il risultato. Ma è anche molto liberatorio, e mi ha insegnato parecchie cose.