Tolstoi diceva che “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.’’ Parafrasando, tutti i lavori si somigliano, ma ogni lavoro fa schifo a modo suo.

È sempre un argomento delicato, quello del lavoro. Ultimamente, anche di più.

Chi sembra quasi sentirsi in colpa anche solo ad averlo, un lavoro, figuriamoci lamentarsene, con tanta gente che il suo lavoro non ce l’ha più.

Chi “tanto adesso non è il momento di cercare”, che è sempre stata la scusa che si è raccontato, ma che adesso suona più convincente.

Chi ribadisce che tanto si sa che le aziende sono fatte così, e non so se ne è davvero convinto o se non si pone nemmeno la domanda del perché non inizi proprio lui a cambiare qualcosa.

Ne sento tanti, di discorsi così. Il lavoro da remoto ha tolto le pause caffè in ufficio, e allora si cercano opportunità alternative di scambio, in cui un po’ sfogarsi e un po’ riflettere. E io sono lì, come trainer, o come coach, in ogni caso elemento neutrale ma da cui si può avere un confronto diverso, un po’ specchio che non fa sconti quando ti stai solo lamentando e un po’ incoraggiamento a rimboccarsi e mettere in pratica idee e strumenti che stiamo condividendo.

E allora, cosa intendiamo veramente quando diciamo che non ne possiamo più del nostro lavoro? E, soprattutto, cosa ci si può fare?

Domenica mattina sono uscita a correre.

È ancora un’abitudine, anche se non è esattamente la stessa cosa. Senza gare, senza obiettivi, senza una vera tabella di allenamento, corro poco, ma corro sempre

Un po’ è il bisogno di una costanza di riferimento, un po’ la risposta alla necessità di muovermi ogni giorno, un po’ è il ritmo delle gambe che sembra aiutare anche la mente a fluire, a tornare lucida e pronta al prossimo compito.

A volte, però, non funziona. 

Come domenica mattina, appunto. Nonostante il sole e nonostante un’intera giornata a disposizione davanti a me, che avrebbe dovuto essere la perfetta premessa alla possibilità di concentrarsi solo su un passo dopo l’altro, senza pensieri.

Invece i pensieri c’erano, e belli aggrovigliati tra loro.

Arianna mi manda un’email un’ora prima del nostro appuntamento, scrivendo che mi allega gli esercizi che ha fatto, anche se “non c'è niente di tutto quello che mi hai chiesto”. Quando ci vediamo, mi racconta che continuava a guardare le domande, e a chiedersi quale fosse la risposta giusta. Nel dubbio dell’incertezza, l’unica soluzione possibile le era sembrato non rispondere.

Che si parli di noi come individui, come parte di un gruppo o del contesto più allargato, è evidente che in questo momento il mondo ci appare più incerto che mai, e la tentazione di stare fermi ad aspettare (Che cosa? Boh, qualcosa, qualsiasi cosa) a tratti sembra irresistibile.

Eppure sono anni che ci ripetevamo che il mondo moderno è VUCA - uno di quegli acronimi comodi come un marchio per identificare le competenze necessarie per affrontare il contesto in cui ci muoviamo: volatile, incerto, complesso, ambiguo.

Ma le definizioni, si sa, da sole portano poco lontano.

Torno a un pezzo di Annamaria Testa uscito sulla soglia di quello che la maggior parte di noi non si rendeva conto essere un passaggio di non ritorno. Un pezzo sull’incertezza, che ci aveva investito ma che ancora non avevamo del tutto riconosciuto. Sulle alternative per affrontarla, e su come la maggior parte delle strategie non sia in realtà efficace.

Ecco, nove mesi dopo mi pare chiaro.

L’incertezza, quella fuori, è più che mai presente. E sull’incertezza, quella dentro, non abbiamo fatto un gran lavoro.

Nel groviglio di sensazioni di queste giornate, tra paura e solitudine, disorientamento e scelte da fare, preoccupazione e fatica, mi sono resa conto che ce n'è una che fa capolino nella mia testa più spesso di quanto vorrei. Il senso di colpa.

Mi guardo attorno e sembra che tutti siano molto indaffarati. Saranno anche chiusi in casa, ma questo non li trattiene dal seguire corsi, pianificare eventi, immaginare progetti nuovi.

Io invece mi sento ferma, e perciò mi sento in colpa.

Il senso di colpa è una sensazione con cui, anche in circostanze più ordinarie, molti di noi hanno una certa dimestichezza. Ci sentiamo in colpa per le scelte che abbiamo fatto e per quelle che non abbiamo fatto, per le volte che abbiamo mollato troppo presto e per quelle in cui invece abbiamo trascinato una situazione che non funzionava perché non trovavamo il coraggio di mollare il colpo

Non mi stupisco, quindi, di sentirmi così adesso. Soprattutto se ammetto che, e non solo adesso, il problema non è tanto scegliere. Il problema è il bisogno di controllo.

Su quello che, in realtà, non possiamo controllare.

Il 2018 è stato un anno anomalo, per una viaggiatrice come me.

Ho parlato molto di viaggi e cammini, ma ne ho fatti ben pochi. Dovevo ancora metabolizzare il trimestre sabbatico sudamericano, e avviare la nuova attività da libera professionista (con le insicurezze e i dubbi che ne derivano).

Non mi sentivo di partire. Non sapevo se ero pronta, o se me lo meritavo.

Il 2019 invece è stato in continuo movimento.

Una bambina balla in una strada di Akihabara a Tokyo: uno sguardo diverso sul futuro

Nella lingua dei Chamacoco, una popolazione india del Paraguay, la negazione si esprime con il futuro. Per dire “non ti amo” si dice “ti amerò”; per dire “non ti pago” si dice “pagherò”. Dunque adesso non ti amo, non ti pago; cioè “ti amerò”, “ti pagherò”, ma domani, sempre domani, dunque mai. (Claudio Magris, La Lettura #375)

Ognuno ha il suo modo per rilassarsi la domenica pomeriggio.

Io leggo il giornale.

Mi piace il gesto di stendere le pagine ampie per cui serve appoggiarsi al tavolo, o allargarsi comodi sul divano. Cerco di superare il disincanto che accompagna la politica, scorro veloce la cronaca, mi soffermo se qualcosa cattura la mia attenzione. Mi concedo quella che potrebbe sembrare piacevole inutilità, e mi immergo finalmente nell’inserto culturale. La domenica lo assaggio solo, per poi tenerne una pagina al mattino mentre faccio colazione, un’altra mentre mi asciugo i capelli. A volte scopro qualcosa di cui non sapevo niente, altre mi guardo intorno come se chi ha scritto un articolo mi stesse spiando e avesse scelto l'argomento proprio per me.

Quella domenica mattina stavo parlando di futuro con mio fratello.

Anzi, no, non è esatto. Più che altro stavamo parlando di mezzi progetti, di idee, di spunti. Quelli che ti passano nella testa ma non sembrano trovare la strada per uscire da lì, e diventare qualcosa di vero.

Il futuro dei Chamacoco, quello che non si realizza mai.

Pensavo di essere una che fa, non una che pianifica.

Per la prima volta mi avevano assegnato un progetto tutto mio, ed era il momento della valutazione di fine anno con il nuovo capo. Avevo sempre avuto una routine ben delineata, e il rapporto con il responsabile era semplice: lui riceveva un compito, lo smistava alla squadra, e ciascuno faceva la sua parte senza troppe domande. Adesso che avevo provato cosa significa doversi dare autonomamente delle priorità, però, mi sentivo in difficoltà. Me l'ero cavata, ma non ero così certa di aver gestito al meglio la situazione. Lui, invece, aveva un’opinione diversa: riteneva che l’organizzazione fosse il mio punto di forza, e che l'azione ne fosse solo la conseguenza.

Ma chi pianifica e chi fa sono davvero mondi contrapposti?

Cosa è importante Alba Lago Maggiore

A. era una ritardataria cronica. Il problema è che era la mia amica del cuore, quella con cui a vent’anni vivi in simbiosi. Ad un certo punto doverla aspettare costantemente aveva iniziato a infastidirmi un po’. Così, una volta, le ho dato un appuntamento anticipandolo volutamente di mezz’ora. Si è offesa da morire, me lo ricordo. Ma io, in fondo, ero altrettanto offesa che lei non mi considerasse abbastanza importante da essere una sua priorità.

Perché cosa esiste di più prezioso del tempo?

Non ho tempo. Quando avrò tempo. Non ho un attimo di respiro. Aspetta un attimo. Non è il momento. Vorrei un momento solo per me.

La verità è duplice.

Running Charlotte_100 Principesse Torino

“Ciao, sono Carlotta!”

Fa un effetto straniante, riconoscere la sua voce anche se non ci siamo mai incontrate. È l’effetto asimmetrico dei social: dalla scorsa primavera leggo il suo blog, guardo le sue foto e seguo i suoi video su Instagram. Ho letto le sue parole, conosco il suo sguardo e i tratti del suo viso e, appunto, la sua voce, il tono squillante e quell’accento che non so completamente collocare.

Mi sembra di conoscerla mentre lei di me non sa niente, sono solo un indirizzo email che l’ha raggiunta attraverso un contatto comune, e che le ha chiesto di poter fare una chiacchierata.

La verità, naturalmente, è che nemmeno io so molto di lei. Beviamo un caffè mentre fuori piove, e Carlotta mi racconta la sua storia, che inizia proprio come tante altre. La laurea in design dopo la quale si rende conto che lavorare in uno studio non fa per lei, che quelli che dovrebbero essere puri luoghi di creatività in realtà sono ingessati in abitudini non scritte, come e più di un qualsiasi ufficio fatto di procedure e scadenze. L’idea di utilizzare in modo differente le sue competenze candidandosi per un ruolo in azienda.

E le circostanze che, come spesso capita, prendono una direzione diversa e le aprono una strada che nemmeno aveva immaginato.