Perché ogni lavoro fa schifo, e come disegnarlo meglio

Tolstoi diceva che “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.’’ Parafrasando, tutti i lavori si somigliano, ma ogni lavoro fa schifo a modo suo.

È sempre un argomento delicato, quello del lavoro. Ultimamente, anche di più.

Chi sembra quasi sentirsi in colpa anche solo ad averlo, un lavoro, figuriamoci lamentarsene, con tanta gente che il suo lavoro non ce l’ha più.

Chi “tanto adesso non è il momento di cercare”, che è sempre stata la scusa che si è raccontato, ma che adesso suona più convincente.

Chi ribadisce che tanto si sa che le aziende sono fatte così, e non so se ne è davvero convinto o se non si pone nemmeno la domanda del perché non inizi proprio lui a cambiare qualcosa.

Ne sento tanti, di discorsi così. Il lavoro da remoto ha tolto le pause caffè in ufficio, e allora si cercano opportunità alternative di scambio, in cui un po’ sfogarsi e un po’ riflettere. E io sono lì, come trainer, o come coach, in ogni caso elemento neutrale ma da cui si può avere un confronto diverso, un po’ specchio che non fa sconti quando ti stai solo lamentando e un po’ incoraggiamento a rimboccarsi e mettere in pratica idee e strumenti che stiamo condividendo.

E allora, cosa intendiamo veramente quando diciamo che non ne possiamo più del nostro lavoro? E, soprattutto, cosa ci si può fare?

Ci sono molti aspetti che “fanno un lavoro”, e il primo passo per capire se è così vero che il nostro lavoro fa schifo è, probabilmente, andare oltre la frase fatta e provare a decodificarla, a suddividerla nelle sue componenti minime.

Io sono stata fortunata. Ancor prima (molto prima) di incontrare il Design Thinking e la sua applicazione alla progettazione di noi stessi, in ambito professionale ma non solo, sono finita a fare per puro caso un lavoro che sembrava fatto proprio per me. Un lavoro in cui mi venivano dati obiettivi e lo spazio per raggiungerli, in cui sentivo di portare un contributo, in cui ho riconosciuto poco alla volta le mie capacità.

Un lavoro nel Paese delle Meraviglie? No, un lavoro normale (anche se forse per certi versi è vero che io sono un po’ Alice).

Di certo, un po’ per caso e un po’ per scelta (forse è un’altra di quelle situazioni in cui ci si potrebbe chiedere se si tratta di un’attitudine innata o appresa) un percorso in cui ho consolidato la convinzione che il lavoro possa essere qualcosa che ci fa svegliare al mattino curiosi di quello che succederà.

Non si parlava ancora granché di felicità in azienda, sono figlia della generazione per cui il lavoro era un dovere, e non ci si facevano poi tante altre domande. Ma vedere, concretamente e giorno dopo giorno, che al netto delle inca**ature e delle pressioni, degli intoppi e delle delusioni, il mio impegno faceva la differenza, per me era (e resta) qualcosa di potente.

Quello che continua a farmi credere (e dire) che voglio cambiare il mondo.

Poi, appunto, non sempre è andato tutto secondo i piani. Ma è proprio in questi casi che diventa importante avere strumenti per chiederci, ammesso che davvero il nostro lavoro faccia schifo, come possiamo migliorarlo (che per altro era il titolo di un libro che mi ha regalato tanti anni fa uno di quei capi che ti fanno capire cosa può essere un capo, e come vorrai essere un capo, un giorno).

“Ci stiamo dirigendo verso un futuro del lavoro più incerto che mai. Per essere capaci di affrontare un futuro in cui non sappiamo quali lavori saranno disponibili e quali cambieranno radicalmente, dovremo adottare la mentalità di un designer” (Bill Burnett)

Design your Work Life è stato pubblicato nei primi giorni del 2020. E questa frase di uno dei suoi autori, Bill Burnett, non è più qualcosa che possiamo liquidare come adatta solo a chi ha meno di 30 anni, a chi ne sa di tecnologia, a chi certo che il lavoro se lo deve inventare, perché non ha ancora un’esperienza definita.

Burnett e Evans, applicando la loro metodologia del life design al mondo lavorativo, ci ricordavano già un anno e mezzo fa che non dobbiamo per forza accettare passivamente quello che non va o iniziare a cercare un nuovo lavoro.

“Don’t resign, redesign”

Non cambiare lavoro, cambia IL lavoro.

Non dare per scontato che l’unica soluzione sia mollare il lavoro attuale (anche perché, come spesso capita, se cambiamo lavoro senza aver compreso il nocciolo della nostra frustrazione, rischiamo di ritrovarci ma nella stessa situazione, solo in un’azienda diversa).

Prendi in considerazione altre possibilità.

Tanto più adesso che ci sono lavori che non esistono più. Lavori che sono in sospeso da un anno. Lavori che esistono ancora nel loro nome, ma che sono qualcosa di completamente diverso.

Livello 1. [a effetto quasi immediato] Riformula il tuo perché

Chiediti il perché del tuo lavoro. Quale era, quale è. Forse ti piaceva la possibilità di entrare in contatto con realtà diverse, forse ti piaceva la sfida di raggiungere un obiettivo. Forse adesso il tuo perché è del tutto cambiato. Oggi può avere a che fare con la solidità, la possibilità di avere un punto fermo nell’incertezza. Meno divertente, probabilmente. Ma altrettanto di valore, utile, necessario.

Non lavoriamo per il lavoro, ma per quello che conta per noi. 

Livello 2. [non tanto il cosa, ma il come] Ristruttura

Efficace soprattutto se il tuo lavoro c’è ancora, ma più che altro di nome. Trova modi alternativi per affrontare il cambiamento. Chiediti “Come potrei…?” e applicalo agli ostacoli che oggi ti sembrano più ardui. Le luci e ombre del lavoro a distanza, gli strumenti per comunicare e condividere, oppure le nuove opportunità che si potrebbero aprire per quello che fai.

Livello 3. [qui entra anche il dove] Ricolloca

Individua i tuoi punti di forza e cerca di capire se puoi apportare piccoli (o grandi) cambiamenti alla struttura del tuo lavoro per sfruttarli maggiormente nel tuo quotidiano.  Pensa ai processi, a dove si colloca la tua attività nella sequenza complessiva dell’azienda, individua attività e responsabilità che potresti integrare. Se porti una soluzione al tuo responsabile, difficile ti dica di no.

Se poi il capo di te stesso sei tu, cosa stai aspettando?

Livello 4. [la più radicale] Reinventa

Se il tuo lavoro davvero non ti dice più niente, oppure non esiste, o non riesci a capire che fine farà. Questa soluzione richiede una vista almeno di medio termine per raccogliere informazioni, per farti un piano d’azione, per valutare cosa ti aspetta, per decidere se ne vale la pena. Per iniziare a studiare, allenarti, provare.

Per creare una versione differente di te.

Solo se smettiamo di essere come bambini che chiedono “Quanto manca?” potremo riconoscere che ci vuole tempo, per cambiare le cose.

Ma il percorso è importante quanto la meta.

Iniziamo adesso. Per smettere di dirci “Sarò felice quando” e ricordarci che, un minuto alla volta, possiamo essere felici adesso.

Laura Cerioli
laura.cerioli@yahoo.it

People Partner | HR Transformation | Leadership Development. Lavoro a supporto di aziende in crescita, in quella delicata fase di passaggio che richiede di rivedere, ottimizzare e sistematizzare i processi interni dedicati alla gestione e allo sviluppo delle persone.

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