I giorni a cavallo tra la fine di un anno e l’inizio del successivo per me sono quasi sempre un po’ sospesi, e questi ultimi lo sono stati più che mai. 

Non sento lo spirito natalizio, sono allergica alle riunioni di famiglia che si protraggono per giornate intere, e ultimamente era più semplice trovarmi su qualche sentiero (lo scorso anno anche su qualche spiaggia, ma meglio non pensarci troppo) che seduta a una tavola imbandita.

Quest’anno, in realtà, anche io ho iniziato l’anno seduta al tavolo della cucina. Davanti, però, invece del piatto avevo l’agenda, fogli, pennarelli. Per rielaborare i dodici mesi passati, e per immaginare i prossimi.

Per ripensarmi, così da poter ripensare.

Sono nata il primo di ottobre, e in famiglia mi ricordavano di quando quella giornata era quella dei remigini, i bambini che iniziavano la prima elementare. Le lezioni sono ricominciate da qualche settimana, e più che mai la sensazione è per tutti quella di dover affrontare il primo giorno di scuola.

Il tempo di quest’anno è stato un tempo anomalo, che è sembrato andare contro tutte le regole della fisica che regolano il suo scorrere regolare. Abbiamo vissuto settimane di stasi, come se fossimo tutti con il fiato sospeso. Settimane che sembravano sfuggire, indifferenti e indifferenziate. Volenti o nolenti ci siamo ritrovati a doverci adattare alle indicazioni che determinavano cosa potevamo o non potevamo fare, dove potevamo o non potevamo andare. 

Poi è tornata la libertà di ripensare il futuro, individuale e collettivo, ma sentirsi liberi è più semplice a dirsi che a farsi.

A due mesi dall'inizio dell'emergenza, e dopo cinquanta giorni di clausura, credo di non poter più rimandare. Mi sono fermata, ho atteso indicazioni, come se mi aspettassi che le risposte potessero arrivare da fuori. Mi viene in mente la mia prima maratona, quando al trentacinquesimo chilometro mi ero seduta per terra sperando che qualcuno mi venisse a prendere. Non era arrivato nessuno, e alla fine mi ero rialzata e avevo fino la corsa. Credo di dover fare anche questa volta così.

Sono arrivata al design thinking attraverso molte strade e, all’inizio, senza nemmeno sapere veramente di esserci arrivata.

Nell’estate del 2009 ero a Copenaghen a trovare la mia amica Nunzia. Io ero finita lì perché, come si sa, per me ogni scusa per scoprire una nuova città è buona.

Lei era lì per frequentare il Master in Interaction Design, che per me era un nome che suonava bene ma ben poco comprensibile, dato che il design thinking era stato codificato a Stanford solo una decina di anni prima, e in Italia se ne iniziava a malapena a parlare, e solo in contesti legati in qualche modo al design tout court.

Poi me ne sono quasi dimenticata. 

Qualche giorno fa, scherzando con un amico, affermavo che sono un po' ingegnere dentro, e quasi per niente fuori. Una definizione che cercava di racchiudere la mia parte iper-razionale e quella un po' ingenua, quella che struttura tabelle excel e quella che prepara lo zaino, quella che vive nella mente e quella che è sempre curiosa di capire qualcosa in più delle proprie emozioni.

Racconto spesso che, quando ho iniziato a prestare più attenzione a quello che provavo, la prima sorpresa è stata rendermi conto di quanto forti potessero essere le sensazioni fisiche che si accompagnavano alle differenti emozioni. Non che prima non ci fossero, ma non ci avevo mai badato più di tanto. Le avevo zittite, o con la grazia che mi è propria ero andata avanti come un caterpillar facendo finta che non esistessero.

La seconda sorpresa era che, pur con tutta la mia passione per le parole, le emozioni proprio non le sapevo dire.

La mia reazione di fronte all'imprevisto, che è spesso quella di buttarmi e poi vedere come va, non è coraggio. Se dovessi spiegarla, direi piuttosto che è un po’ caso, un po’ istinto.

Quell’istinto che quando mi sento costretta mi fa divincolare, perché dentro a confini troppo stretti non ci so stare, e allora lì il ragionamento c’entra poco, non mi chiedo se avrebbe più senso fermarmi un istante e scegliere la strategia migliore, non mi preoccupo se muovendomi rischio di farmi male.

Perché la verità è che quando è il momento di cambiare, soprattutto se siamo costretti a cambiare, spesso lasciamo che sia la fretta a decidere.

Dimenticando che nel cambiamento non dobbiamo per forza essere soli, ma possiamo scegliere chi avere accanto.

Era un anno che non tornavo nella casa di famiglia, appena fuori Trento. E dalla volta precedente erano passati almeno vent’anni. Non ho molti ricordi legati alle mie estati d’infanzia, ma entrare nella stanza dal pavimento di assi di legno, su cui veglia da forse un secolo la cucina economica smaltata di bianco, era stato un tuffo in una mappa del passato, sulla quale ogni segno ritrovava un senso: il tavolo massiccio su cui mia nonna stendeva sottile la pasta dello strudel , il davanzale nella nicchia profonda dove mi sedevo a leggere guardando verso il bosco.

Svuotare una casa è un passaggio di grande fatica emotiva, ma forse non ce ne rendiamo conto finché non ci troviamo dentro. Che poi in realtà lì io mi sentivo più che altro un osservatore: avevo messo subito in chiaro che non intendevo portare via niente (e cosa volete che ci stia, nella mia casa lillipuziana?), e leggere le pigne di cartoline e guardare tra i libri di inizio secolo mi faceva più l’effetto di curiosità da mercatino dell’usato che di qualcosa a cui appartenevo.

Eccezion fatta per l’atlante del bisnonno, naturalmente.

“Spero sia stata una splendida giornata”, diceva il messaggio di Daniela. Stavo per rispondere che, in realtà, ero un po’ triste. Poi ci ho pensato meglio, e ho realizzato che triste non era la parola che descriveva il miscuglio di emozioni che avevo in quel momento nella pancia.

Mi sentivo malinconica, pensierosa, forse un po’ delusa. Non triste.

D’altra parte il linguaggio che servirebbe per raccontare le nostre emozioni sembra essere una lingua straniera che non conosciamo.

E, d’altra parte, nessuno ce l’ha mai insegnata davvero.

"Ho una novità! Torno a casa e in anticipo!"

Un messaggio un lunedì sera qualunque, un messaggio che migliora subito la settimana: quello di una nuova Bambina che fa un passo verso i propri sogni.

Ne ho incontrate molte, negli ultimi tre anni. Quando ero in azienda, le osservavo ammirata, chiedendomi se un giorno lontano lontano anche io avrei potuto essere una di loro. Erano quelle che avevano già spiccato il salto, che erano uscite dal sentiero tracciato.

Che avevano scelto.

Con loro mi affacciavo dietro le quinte, nelle oscillazioni tra il dubbio e la felicità, tra i piccoli successi e le delusioni che ci sembrano enormi.

Ogni storia che avevo raccolto, però, cominciava “dopo”. A volte solo dopo il primo passo, altre dopo un percorso di mesi o anni.

Monica invece l’ho incontrata prima di tutto questo.

Fin dagli anni ’50 si riflette su come la psicologia e la ricerca sulle emozioni possono andare a sostenere non solo situazioni di disagio, ma anche guidare verso meccanismi per una buona salute mentale: ecco così la diffusione della psicologia positiva di Martin Seligman o iniziative come Action for Happiness, no profit inglese che riunisce persone che vogliono contribuire al cambiamento sociale attraverso azioni pratiche in questa direzione.

Così oggi di felicità sappiamo un sacco di cose: che non la possiamo raggiungere da soli ma coltivando le relazioni con chi ci sta accanto, che ha a che fare con lo spazio in cui viviamo e il clima dell'ambiente in lavoriamo, con il movimento e la cura di noi, con la gratitudine e il senso di ciò che facciamo.

Non so a voi, ma a me tutta questa enfasi a volte crea un po’ di ansia.