Ieri, oggi, domani: tu hai mai futurato?

Sono nata il primo di ottobre, e in famiglia mi ricordavano di quando quella giornata era quella dei remigini, i bambini che iniziavano la prima elementare. Le lezioni sono ricominciate da qualche settimana, e più che mai la sensazione è per tutti quella di dover affrontare il primo giorno di scuola.

Il tempo di quest’anno è stato un tempo anomalo, che è sembrato andare contro tutte le regole della fisica che regolano il suo scorrere regolare. Abbiamo vissuto settimane di stasi, come se fossimo tutti con il fiato sospeso. Settimane che sembravano sfuggire, indifferenti e indifferenziate. Volenti o nolenti ci siamo ritrovati a doverci adattare alle indicazioni che determinavano cosa potevamo o non potevamo fare, dove potevamo o non potevamo andare. 

Poi è tornata la libertà di ripensare il futuro, individuale e collettivo, ma sentirsi liberi è più semplice a dirsi che a farsi.

Ci sentiamo ancora sballottati tra la speranza del cambiamento, dell’opportunità di fare tesoro di quello che abbiamo affrontato e che stiamo attraversando, e il disincanto di parole che restano tali, di tanta, troppa retorica o, come ben detto dal Post “L’occasione per non ripensare niente.

Ripensare il futuro non è semplice.

E non solo perché continuano a mancarci parametri, perché continuiamo a riferirci a quello che era “prima”, a chiederci quando potremo “tornare a. Ma anche perché pensarsi in prospettiva è un’abitudine che viene coltivata raramente, sia dal singolo individuo che a livello più ampio, di organizzazioni aziendali o addirittura statali.

Provate a pensarci per un istante – qual è la vostra reazione quando ci si riferisce a un momento che si proietta avanti nel tempo di cinque, dieci, venti anni?

Io lo so, lo so molto bene.

Resto ancora quella che a chi mi dice “Che scelta coraggiosa lasciare tutto per viaggiare zaino in spalla in Sudamerica!” risponde che trova molto più coraggioso sottoscrivere un mutuo. Prendersi un impegno per qualche decennio, immaginarsi a vivere nella stessa casa per lo stesso tempo, o forse per sempre. Sono quella che quando si occupava di selezione non avrebbe mai chiesto a un candidato “Dove ti vedi tra cinque anni?” perché sapeva che non sarebbe stata in grado di rispondere alla stessa domanda.

Non so quale sia il motivo per cui non sappiamo più pensarci a lungo termine. 

Forse perché l’abitudine alla soddisfazione immediata di ogni nostro dubbio e richiesta ci ha fatto perdere la capacità di esercitare la pazienza. Forse perché la volatilità e la velocità del cambiamento – sociale, economico, politico – ci hanno convinto che investire le nostre energie nel fare piani a lungo termine sia una strada sicura per la frustrazione. Forse perché il bisogno di tornare al qui e ora è stato confuso con un’antitesi rispetto a uno sguardo progettuale più ampio.

Fatto sta che guardiamo solo al prossimo passo, dimenticando che per costruire grandi cose – come per coprire lunghe distanze – ogni passo è fondamentale, ma è fondamentale che venga fatto nella giusta direzione. E quindi che questa direzione sia definita.

Ari Wallach si definisce “futurista”.

Laureato in scienze politiche e a lungo consulente in ambito governativo e non-profit, fondatore di Longpath, un’iniziativa dedicata a supportare gli individui, le organizzazioni e la società nel suo complesso, per raccontare la sua visione sul futuro a lungo termine, e come costruirlo, conia il termine “futurare.

Perché è questo che ci serve, in questo momento. Proprio perché, se ci guardiamo attorno, la sensazione è scoraggiante: l’ennesima tendenza a prendere la strada più semplice e pigra, invece che a cercare quella più efficace, anche se probabilmente richiede qualche sforzo in più. Vogliamo essere comodi, vogliamo stare al sicuro. Dimenticando almeno un paio di cose.

La prima è che non sempre possiamo scegliere dove stare. A volte sono le circostanze a decidere per noi, e in quel caso aggrapparsi all’illusione del “vorrei che tutto rimanesse come prima” diventa ostinazione cieca, che ci mette solo in pericolo. 

La seconda è che proiettarsi è molto più difficile che ricordare. Il cambiamento da fare ci sembra una montagna insormontabile perché non riusciamo a scomporlo in sezioni che ci appaiano affrontabili, così finiamo anche qui per accontentarci di soluzioni che non appaiano troppo ardue.

Invece di ampliare la prospettiva, per capire dove sarebbe veramente importante ripensare il futuro.

Come ci fa osservare Wallach, il “breve periodo” è un vero e proprio problema in sé. Ci accontentiamo di quelle che chiama “le strategie dei sacchi di sabbia”

“Sapete che sta arrivando una tempesta, l’argine è rotto, nessuno ha fatto degli stanziamenti, circondate la casa con sacchi di sabbia. E sapete cosa succede? Funziona. L’allarme finisce, il livello dell’acqua scende, togli i sacchi di sabbia e fai così tempesta dopo tempesta dopo tempesta”. 

Ma c’è una cosa insidiosa. Non si risolve il problema alla radice. Lo si tampona e basta, appunto.

Come ci fa osservare Wallach, il “breve periodo” è un vero problema in sé.

Ogni investimento – di tempo, energie, testa, denaro – sembra più grande se pretendiamo di concentrarlo su qualche mese, invece che su qualche anno. 

Ci si adatta a pensare il futuro secondo una lente unica, filtrandola attraverso i parametri del momento. Invece possono esistere diversi tipi di futuro.

Un futuro che si pensa nel portare qualcosa di buono al mondo tra la nostra nascita e la nostra morte. Un futuro che si apre a una visione transgenerazionale, iniziando a considerare in modo strutturale le conseguenze delle nostre scelte e dei nostri comportamenti sulle generazioni future. E a che un futuro che richiama

“[…] il pensiero del Telos. L’obiettivo sommo, lo scopo sommo. In ultima analisi si tratta di una domanda: per quale fine? Quand’è stata l’ultima volta che vi siete chiesti: per quale fine? E quando ve lo siete chiesti, quanto lontano siete andati? Perché a lungo non è più abbastanza. Tre, cinque anni non incidono. Sono 30, 40, 50, 100 anni. 

Ecco allora perché ripensarsi. Per non accontentarsi di decidere cosa sarà domani.

Per smettere di tenere lo sguardo per terra, e fissare l’orizzonte.

Per futurare.

il futuro, lo consideriamo un sostantivo. No. Dev’essere considerato come verbo. Richiede azione. (…) È qualcosa su cui abbiamo il completo controllo. Ma in una società a breve termine, finiamo per credere di non averlo. Ci sentiamo in trappola

Forse è soprattutto questo ci fa un po’ paura. La consapevolezza che scegliendo questa strada dovremo rinunciare ad aspettare che qualcuno ci dica cosa fare, non potremo più cercare scuse, non avrà senso cercare colpevoli. Che saremo i soli responsabili del nostro ripensamento, che ammetteremo di essere, ciascuno di noi, responsabili anche della possibilità di contribuire a un ripensamento collettivo.

Provate ad andare oltre la vostra vita se potete, perché questo vi fa fare cose un po’ più grandi di quello che pensavate possibile.”

Non ci avevo mai pensato, probabilmente non mi sento all’altezza.

Ma se non proviamo a futurare, non scopriremo mai cosa siamo in grado di realizzare.

Laura Cerioli
laura.cerioli@yahoo.it

People Partner | HR Transformation | Leadership Development. Lavoro a supporto di aziende in crescita, in quella delicata fase di passaggio che richiede di rivedere, ottimizzare e sistematizzare i processi interni dedicati alla gestione e allo sviluppo delle persone.

2 Comments
  • Marinz
    Posted at 08:31h, 09 Ottobre Rispondi

    Parole forti queste che fanno tanto riflettere.
    Futurare sarebbe una cosa bellissima se si potesse davvero avere la mente libera e non ingabbiata dal senso incerto del domani.
    Ogni tanto ci provo e credo che il provarci sia un passo in avanti e se poi raggiungo anche quello che ho programmato a lungo termine, senza che sia intervenuti fattori esterni improrogabili (vedi anche questo periodo di virus), me ne esco più forte.
    Il pensare a 10, 20 o 30 anni lo faccio ogni tanto vedremo cosa succederà.
    Un sorriso

    • Laura
      Posted at 11:30h, 09 Ottobre Rispondi

      Credo che in effetti la forza del gesto stia proprio nel provarci: d’altra parte è nella natura stessa del futuro quello di non essere conoscibile, né controllabile, e avere questa pretesa rischierebbe di farci cadere nella rigidità, e incastrarci di nuovo al punto di partenza. Il senso incerto è strutturale e connaturato a “quello che verrà”, la nostra parte è nel sapere cosa ci muove, e a cosa puntiamo a lungo termine. Il come, lo faremo sul campo 🙂

Post A Comment