23 Feb L’abitudine di (s)correre
Ormai è più di un anno che non corro. Cioè, non è esatto dire che non corro, nel senso vero e proprio del termine. Almeno tre volte a settimana mi butto giù dal letto, mi infilo le scarpe e faccio il mio giro. Ma corro poco, corro per abitudine, corro senza grande gioia.
Della potenza delle abitudini, d’altra parte, mi accorgo soprattutto quando sono stanca.
Per me essere stanca significa prima di tutto essere scarica di testa, perché da tempo ho capito che invece il sensore che indica la fatica fisica deve essere staccato o rotto, forse non è mai esistito o per lo meno non l'ho mai ascoltato. Ma, come chiunque, non posso certo fare finta di non essere mentalmente affaticata, ultimamente.
Non c’è da stupirsi, che abitudine e stanchezza interagiscano così. Il meccanismo alla base della ripetizione automatica parte infatti proprio da lì: il nostro cervello consuma almeno un quinto di tutta l’energia del nostro metabolismo basale. E questo quando siamo a riposo. Immaginiamoci cosa succede quando i pensieri ci sembrano un bandolo da districare.
Così, il cervello ama le abitudini perché gli permettono di risparmiare, tanto che si calcola che il numero di azioni che svolgiamo in automatico sia vicino all’80% di tutto ciò che facciamo in una giornata media.
Il problema è che il meccanismo della routine, o della comfort zone, rassicurandoci nella ripetizione di ciò che conosciamo, inizia con l’obiettivo (positivo) di minimizzare i pericoli, ma rischia in realtà di diventare un vincolo ingiustificato, una distorsione cognitiva che, proprio come uno specchio deformante, ci permette di vedere la realtà attraverso un unico filtro.