Ormai è più di un anno che non corro. Cioè, non è esatto dire che non corro, nel senso vero e proprio del termine. Almeno tre volte a settimana mi butto giù dal letto, mi infilo le scarpe e faccio il mio giro. Ma corro poco, corro per abitudine, corro senza grande gioia.

Della potenza delle abitudini, d’altra parte, mi accorgo soprattutto quando sono stanca.

Per me essere stanca significa prima di tutto essere scarica di testa, perché da tempo ho capito che invece il sensore che indica la fatica fisica deve essere staccato o rotto, forse non è mai esistito o per lo meno non l'ho mai ascoltato. Ma, come chiunque, non posso certo fare finta di non essere mentalmente affaticata, ultimamente.

Non c’è da stupirsi, che abitudine e stanchezza interagiscano così. Il meccanismo alla base della ripetizione automatica parte infatti proprio da lì: il nostro cervello consuma almeno un quinto di tutta l’energia del nostro metabolismo basale. E questo quando siamo a riposo. Immaginiamoci cosa succede quando i pensieri ci sembrano un bandolo da districare.

Così, il cervello ama le abitudini perché gli permettono di risparmiare, tanto che si calcola che il numero di azioni che svolgiamo in automatico sia vicino all’80% di tutto ciò che facciamo in una giornata media.

Il problema è che il meccanismo della routine, o della comfort zone, rassicurandoci nella ripetizione di ciò che conosciamo, inizia con l’obiettivo (positivo) di minimizzare i pericoli, ma rischia in realtà di diventare un vincolo ingiustificato, una distorsione cognitiva che, proprio come uno specchio deformante, ci permette di vedere la realtà attraverso un unico filtro.

E non è detto che sia il filtro migliore.

Siamo stati troppo ingenui, su questo siamo tutti d’accordo. Ci siamo scoperti più vulnerabili di quanto credessimo.

Dichiarare a gran voce che ne saremmo usciti migliori, che sarebbe andato tutto bene. Ci credevamo, in quel momento. D’altra parte, da qualunque lato si guardi la situazione, non solo non eravamo preparati, ma forse era impossibile essere preparati, o esserlo del tutto, dato che quello che è successo non era mai accaduto, per lo meno non era mai accaduto nel contesto attuale di velocità dello scambio. Scambio di persone, di idee, di merci. Le prime sono diventate veicolo della diffusione della malattia, le seconde hanno mostrato la fragilità del nostro senso critico, le terze hanno per un po’ scavalcato, in ordine di priorità e di valore, l’immaterialità che sembrava essere ormai l’unico perno dell’economia.

Il cambiamento, però, anche se non era quello che avevamo immaginato, resta un dato di fatto. Un dato di fatto complicato, diciamolo pure. Perché ci costringe ad ammettere quanto poco ci conosciamo, quanto siamo meno… coraggiosi? Coerenti? Promotori di azioni concrete? Disposti a metterci la faccia e l’impegno che servono? Fate voi.

Quanto siamo più fragili e in bilico di quanto volevamo raccontarci.

Che la soluzione a un problema non ci arriva praticamente mai quando siamo concentrati sul problema stesso è qualcosa che abbiamo sperimentato tutti. Come pare abbia affermato Albert Einstein, "Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”.

Ho anche osservato che le idee mi arrivano  spesso quando sono più concentrata sul corpo, che sulla mente. Quasi sempre mentre corro, a volte mentre dormo. Come giovedì scorso. Apro agli occhi all’improvviso, allungo la mano verso il comodino, butto giù mezze parole con quella calligrafia che già è pessima quando scrivo da sveglia, figuriamoci a notte fonda.

Al mattino rileggo quello che ho scritto.

Abitudine.

Mi manca.

La realtà delle cose.

La certezza.

Ecco, parto da qui. Dalla celebrazione del lutto di ciò che non esiste.

Dell’anno bisestile, in realtà, sapevo solo una cosa.

Anno bisesto, anno funesto - si dice.

In effetti il 2020 non è che sia partito benissimo, con questo coprifuoco per mezza Italia e scene da apocalisse in corso causa timore da virus.

I precedenti? Sono di memoria corta, quando si tratta di quello che non funziona, quindi faccio un po’ fatica a dire come sono andati i precedenti anni bisestili.

Mi sforzo e provo a riavvolgere il nastro.

Gennaio è partito come sempre: con l’agenda organizzata e pronta per i progetti pianificati per il nuovo anno.

Poi una alla volta le caselline colorate dell’agenda hanno iniziato a saltare, a slittare, a dileguarsi. Ora, non che la cosa non succedesse anche in azienda: idee che sembravano così interessanti da dover essere realizzare immediatamente - e che invece si sono impantanate chissà dove, travolte dalle urgenze o dai cambi di direzione.

Solo che, quando lavori in proprio, le battute d'arresto sembrano molto più brusche.

Perché in azienda i buchi dell’agenda sembrano riempirsi come per magia. C’è sempre qualcosa da fare, qualcuno che ti chiede una mano. E, nella peggiore delle ipotesi, c’è sempre l’archivio di sistemare. 

Non è che adesso abbia meno cose da fare. Anzi.

Gli spazi liberati dalle attività contingenti dovrebbero essere una manna dal cielo, fondamentali per mettere le fondamenta per i piani a medio o a lungo termine.

Io sono quella che si annoia.

Quella che quando le cose vanno in automatico, allora è il momento di provare qualcosa di diverso. Quella che alza la mano quando c’è da seguire un nuovo progetto, ma quando serve la costanza di monitorare il processo lascia volentieri il posto a un altro. Quella che a un certo punto ha deciso di cambiare lavoro perché stava troppo bene, mentre un posto dove “c’è da fare tutto” sembrava la prospettiva più attraente che potesse esistere.

Ricordo ancora un giorno di qualche anno fa, ferma in coda nel traffico - avevo corso qualche maratona, scoperto da poco il trail running, pensavo che il triathlon fosse un po’ troppo ma, magari, il duathlon di corsa e bicicletta… E, a un tratto, mi sono fermata a riflettere su questo mio bisogno di provare, cercare, sperimentare.

Non sarebbe più sensato focalizzare le energie in una sola direzione, scegliere cosa voglio in modo sequenziale, e cercare di farlo davvero bene?

Non lo so.

Si diceva che intanto bisogna fare il primo passo, e su quello Lucia era partita carica e piena di entusiasmo. Nel suo lavoro è sempre stata brava, i risultati arrivavano e gli obiettivi, anche quando erano impegnativi, non avevano tanto rappresentato un ostacolo ma una sfida stimolante, una scalata per arrivare in vetta e piantare, fiera, la sua bandierina.

Solo che,  a distanza di un anno dalla decisione di mettersi in proprio, le cose non stavano andando esattamente come pianificato.

Perché nessuno le aveva detto che anche i sogni devono superare un test di sostenibilità?

Questo weekend dovevo essere a Valencia, a correre la maratona. 

Avevo scelto con cura la destinazione, perché per un incrocio casuale di circostanze sarebbe stata la mia decima gara su questa distanza, 42 chilometri a 42 anni.

Dicono che Valencia sia una gara veloce, scenografica, emozionante. 

Forse lo scoprirò la prossima volta, forse non lo scoprirò mai. Di certo non l’ho scoperto stavolta, perché alla fine a Valencia non ci sono andata.

Non so dire se ho scelto la corsa di lunga distanza perché corrispondeva al mio carattere o se il mio carattere si è formato anche grazie alla corsa.

Quel che è certo è che senza la corsa non sarei quella che sono, e oggi che pensavo di scrivere un post su una gara che non ho fatto, ho deciso invece di raccogliere quattro parole che raccontano cosa significa per me la corsa.

Ho aperto il mio account Instagram il 31 marzo 2017. Non ricordo esattamente da dove mi sia venuta l’idea, dato che fino a quel momento ero talmente poco affine ai social da avere su Facebook meno di un centinaio di contatti. Ma forse perché l’anno prima avevo finalmente fatto un corso di fotografia e comprato la mia prima reflex, forse perché avevo approfondito il tema dello storytelling per immagini, volevo esplorare questo strumento che permetteva di guardare e narrare, vedere e condividere.

Scorrendo le immagini a ritroso vedo passarmi davanti tre anni di vita, e almeno tre modi di usare questo canale.

Le foto ingenue (e in tutta onestà, bruttine) dei primi mesi, la collaborazione con un’agenzia di comunicazione in cui mi erano state insegnate le regole di un profilo professionale perfetto, il momento in cui ho deciso che (tanto per cambiare) avevo bisogno di fare le cose a modo mio.

Quella sequenza di quasi cinquecento foto è una finestra che permette di guardare la mia vita: libri, scorci di Milano in ogni stagione, scarpe da corsa, dettagli di arte e bellezza. Cene con gli amici, risate che riverberano nel mosso dell’immagine, gnocchi impastati oltralpe e mazzi di fiori arrivati dall’altra parte del mondo.

Luoghi, colori, istanti di viaggio.

Una foto al giorno per ciascuna delle avventure che in questi tre anni mi hanno portata in mezza Italia e poi dal Giappone alla Patagonia, del Texas a Berlino.

Oggi la 25esimaora è seguita da un po’ più di 700 persone. Molte non le ho nemmeno mai incontrate.