Era un anno che non tornavo nella casa di famiglia, appena fuori Trento. E dalla volta precedente erano passati almeno vent’anni. Non ho molti ricordi legati alle mie estati d’infanzia, ma entrare nella stanza dal pavimento di assi di legno, su cui veglia da forse un secolo la cucina economica smaltata di bianco, era stato un tuffo in una mappa del passato, sulla quale ogni segno ritrovava un senso: il tavolo massiccio su cui mia nonna stendeva sottile la pasta dello strudel , il davanzale nella nicchia profonda dove mi sedevo a leggere guardando verso il bosco.

Svuotare una casa è un passaggio di grande fatica emotiva, ma forse non ce ne rendiamo conto finché non ci troviamo dentro. Che poi in realtà lì io mi sentivo più che altro un osservatore: avevo messo subito in chiaro che non intendevo portare via niente (e cosa volete che ci stia, nella mia casa lillipuziana?), e leggere le pigne di cartoline e guardare tra i libri di inizio secolo mi faceva più l’effetto di curiosità da mercatino dell’usato che di qualcosa a cui appartenevo.

Eccezion fatta per l’atlante del bisnonno, naturalmente.

Il 2018 è stato un anno anomalo, per una viaggiatrice come me.

Ho parlato molto di viaggi e cammini, ma ne ho fatti ben pochi. Dovevo ancora metabolizzare il trimestre sabbatico sudamericano, e avviare la nuova attività da libera professionista (con le insicurezze e i dubbi che ne derivano).

Non mi sentivo di partire. Non sapevo se ero pronta, o se me lo meritavo.

Il 2019 invece è stato in continuo movimento.

Si diceva che intanto bisogna fare il primo passo, e su quello Lucia era partita carica e piena di entusiasmo. Nel suo lavoro è sempre stata brava, i risultati arrivavano e gli obiettivi, anche quando erano impegnativi, non avevano tanto rappresentato un ostacolo ma una sfida stimolante, una scalata per arrivare in vetta e piantare, fiera, la sua bandierina.

Solo che,  a distanza di un anno dalla decisione di mettersi in proprio, le cose non stavano andando esattamente come pianificato.

Perché nessuno le aveva detto che anche i sogni devono superare un test di sostenibilità?

Questo weekend dovevo essere a Valencia, a correre la maratona. 

Avevo scelto con cura la destinazione, perché per un incrocio casuale di circostanze sarebbe stata la mia decima gara su questa distanza, 42 chilometri a 42 anni.

Dicono che Valencia sia una gara veloce, scenografica, emozionante. 

Forse lo scoprirò la prossima volta, forse non lo scoprirò mai. Di certo non l’ho scoperto stavolta, perché alla fine a Valencia non ci sono andata.

Non so dire se ho scelto la corsa di lunga distanza perché corrispondeva al mio carattere o se il mio carattere si è formato anche grazie alla corsa.

Quel che è certo è che senza la corsa non sarei quella che sono, e oggi che pensavo di scrivere un post su una gara che non ho fatto, ho deciso invece di raccogliere quattro parole che raccontano cosa significa per me la corsa.