Voce del verbo aspettare
13 Ottobre 2017
Non so cosa mi aspettassi dalla Bolivia.
O meglio. Mi rendo conto che, semplicemente, non mi aspettavo. Ogni giorno di più – nonostante la mappa su cui ho tracciato l’itinerario, la guida su cui ho cercato conferma delle tappe, le prenotazioni sparse di cose assolutamente da vedere – questo viaggio mi ricorda di essere nato senza reali aspettative da rispettare. Sarà che il Sudamerica non è mai stato in cima alla mia lista di luoghi da vedere, quindi non era carico di un immaginario rispetto a cui confrontarsi. Così una volta che ho iniziato ad entrarci, un passo alla volta, mi ha stupito l’Argentina e mi sta ancor più sorprendendo la Bolivia.
Che sulla mappa sembra tutto sommato piccola.
Messa a confronto con i giganti che la affiancano, Brasile e Argentina. E invece. Questi spazi. Tra Uyuni e Potosi la strada sale, una valle con rocce dai colori intensi ma che, per gli alberi che si stagliano rigogliosi, si indovina più ricca di acqua rispetto a quelle del nord dell’Argentina. Dopo un passo, rocce più morbide nei profili e punteggiate di arbusti, che contornano un’ampia zona di prati verde intenso in cui pascolano mandrie di lama e bovini. Al centro, un fiume che a tratti ha scavato più profondamente, quasi la traccia di un canyon. Saliamo ancora, il pascolo lascia il posto ad una sorta di steppa, sabbia fine e migliaia di cespugli dalla forma di fiammella.
Dopo Potosì si entra infine nell’altipiano, pianura a un passo dalla cima di montagne che superano i 5000 metri. Il contrasto rispetto ai paesaggi cui sono abituata si fa se possibile ancora più forte, con questi campi finalmente orizzontali ma altrettanto ostici da convincere a produrre frutto. È iniziata da qualche giorno la primavera, si lavora per la semina. Quinoa, le decine di differenti varietà di patate, altri cereali e tuberi di cui non ho mai sentito il nome. Piante che se la cavano da sole, che non richiedono troppe cure, che si accontentano di un paio di temporali l’anno.
La strada scende, il canyon si fa più ampio.
Eccola, la Città Bianca, cuore e orgoglio del Paese.
Sucre non mi conquista subito. Non riesco ad entrare in contatto con questa città che mi appare divisa a metà. Arrivo a fine giornata, faccio due passi nel centro dagli edifici candidi, che sembrano risplendere al tramonto. Ma sui marciapiedi, bambini che chiedono l’elemosina disegnando pupazzi colorati sui marciapiedi. La mattina seguente il centro è poco meno di una città fantasma. Chiusi i musei, chiusi i negozi. È domenica, è presto, dormono anche i turisti. Quelli che non dormono sono partiti all’alba per il mercato di Tarabuco o per la prossima tappa.
Così organizzo la mia escursione fai da te e mi dirigo verso il Mercado Campesino.
Un labirinto che si estende nelle strade, dalle bancarelle più organizzate a quelle improvvisate, di chi appoggia per terra una coperta per esporre la propria merce. Mi immergo nei richiami dei venditori, nel colore della frutta, degli abiti e degli oggetti più disparati. Mi colpisce come in questa apparente confusione regni in realtà una suddivisione attenta tra le diverse tipologie di merci: banchi specializzati solo in frutta e altri solo in verdura, chi vende carne e chi pollame. Credo che se dovessi fare la spesa sarei travolta dalla vertigine della scelta. Sento il fumo e lo sfrigolio del fuoco, lo seguo, arrivo ad una zona dove sono concentrati piccoli bracieri, ognuno con una signora che accumula fette di carne. È presto, ma in fondo oggi non sono riuscita a fare colazione. Mi siedo ad un tavolo, arriva il mio piatto di riso, patate, cipolla a fettine. Sopra, la carne.
E un cucchiaio.
Non sono previste altre posate, anzi credo che anche il mio cucchiaio possa essere una cortesia perché sono l’unica straniera. Si mangia con le mani, tutto. L’insalata, le patate da sbucciare. Naturalmente, la carne. Mi piace, questo pranzo della domenica improvvisato, seduta al tavolo con tre coppie locali.
Nel pomeriggio mi presento al punto di ritrovo per il tour a piedi. Mi piace farmi guidare da chi vive la città ogni giorno, per provare a scoprire un pezzo dei sentimenti di un popolo, dei loro valori, della loro visione del mondo.
La guida c’è, ma io sono l’unica partecipante. Esito. Avrà di meglio da fare che portare a spasso una sola turista, sperando nella mancia finale. Invece, Bismarck non sembra pensare nemmeno per un momento che sia una scocciatura. Un po’ mi racconta della storia della città, un po’ della propria. Mi chiede dell’Italia. Alla fine, è una chiacchierata, un confronto.
La Bolivia è un Paese patriottico.
Durante la visita alla Casa della Libertad lo si sentiva nelle parole della giovane guida che ci conduceva nel labirinto dei cambi di potere e di interesse, degli eroi come Bolivar e Sucre arrivati dal Venezuela e cresciuti con le suggestioni della rivoluzione francese. Bismarck mi spiega i colori della bandiera, mi racconta della nuova costituzione che non ha nemmeno dieci anni di vita e che è stata riscritta per rendere visibile l’importanza dei popoli nativi, da sempre tenuti ai margini da povertà e scarsa istruzione.
La Bolivia è un Paese giovane.
Passiamo per un parco, sono bambini vocianti, adolescenti accorsi per un’improbabile fiera di anime giapponesi. Chiedo se la società sta cambiando velocemente. Vedo donne di tutte le età con il vestito tradizionale, ma ci sono sempre meno mantelle a colori vivaci, sempre più jeans. Ci si sposa giovani ma c’è anche la percentuale più alta di gravidanze minorili in tutto il Sudamerica. Il cambiamento nella sua curva di accelerazione, che deve ancora trovare il proprio equilibrio.
La storia ufficiale del Paese, ma anche la storia delle sue persone.
E poi è lunedì e sembra di essere in un’altra città. Torno al Mercato Centrale dove il giorno prima non ero riuscita a fare colazione e mi rendo conto che non avevo capito niente, che ero (ovviamente) io a non saper vedere quello che c’era. Mi siedo ad uno dei tavoloni affiancati uno all’altro, dove una ragazza mi propone bunuel e un bicchiere di api morado. Non so esattamente cosa siano né l’uno né l’altro, naturalmente. Ma ormai ci ho fatto l’abitudine. La bevanda è calda, densa e molto dolce. Cerco di farmi spiegare di cosa si tratta, è una bevanda di mais scuro aromatizzata con cannella e limone. Il bunel è una sorta di frittella, aromatizzata all’anice e zucchero, sottilissima e cava all’interno. Cibo per chi lavora duro, si sposta a piedi, porta tutto ciò di cui ha bisogno sulle spalle.
È tornato il sole e capisco che Sucre, in fondo, mi piace. Oggi che è una giornata normale per le strade si incrociano correnti alternate di persone di tutte le età.
Bismarck, al termine del giro cittadino, mi aveva indicato un negozio, spiegandomi che collaborano con associazioni di nativi per garantire che i proventi della vendita dei loro prodotti tessili finiscano nelle mani di chi è effettivamente portatore di quella cultura. Non sono da souvenir, tanto meno avendo ancora davanti due mesi in cui percorrerò qualche migliaio di chilometri con il mio zaino in spalla. Avevo quindi pensato di scappare appena possibile.
Poi sono stata al Museo di Arte Indigena e sono rimasta folgorata.
I Tarabuco che raccontano storie di vita quotidiana – il raccolto, i matrimoni, le danze nelle feste di paese. Il sincretismo tra la religione cattolica che hanno adottato e il culto nativo che non hanno abbandonato. La domenica delle palme e la celebrazione della Pachamama.
E poi, i Jalq’a, che con colori forti e contrastanti rappresentano gli abitanti del regno sotterraneo. I nostri demoni, i pensieri più nascosti, i timori ancestrali. Vorrei capire. Rosso e nero brillante, figure che richiamano l’iconografia cristiana e bestie fantastiche. Mi respinge e mi attira allo stesso tempo. La resistenza e la fascinazione di ciò che va oltre il mondo logico, visibile. L’esperienza universale di affacciarsi a guardare la parte oscura. E scoprire che fa semplicemente parte di noi.
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