Qual è la cosa più strana che ti sia mai mancata? A me, gli avverbi.
Mi mancano proprio, direi a pari merito con il caffè. Che è sicuramente più banale e più prevedibile. Ma è la verità.
In qualche modo mi sono adattata allo spagnolo. Già prima di partire lo capivo abbastanza, e l'immersione accelerata in un modo fatto solo di questo idioma ha accelerato il processo. Sto imparando a districarmi tra i diversi accenti, dall'Argentino con le sue esse che si sciolgono in un'inflessione che al mio orecchio poco allenato richiamava quella dei vicini brasiliani, fino ai cileni, i più difficili, per la parlata accelerata e che tende a troncare le parole.
I libri portati da casa sono finiti velocemente, e li ho lasciati via via sul percorso per i prossimi viaggiatori, sostituendoli con altri che mi conducano nella lingua e nella cultura dei luoghi in cui mi trovo. Vedo film doppiati nelle lunghe tratte di autobus. E parlo, naturalmente. Ho iniziato con le richieste pratiche, quelle che ti permettono di mangiare e dormire e spostarti da un luogo all'altro. Ho continuato raccontando di me e del mio viaggio. Ogni tanto mi mancano le parole, non so coniugare i verbi.
Ma quello che mi mette davvero in crisi sono le sfumature. Gli avverbi, appunto.
Mi pare di avere un linguaggio statico, monocorde, piatto come se gli mancasse una dimensione. Una tortura, per me che invece cerco per quanto possibile l'esattezza del senso e l'eleganza della forma.