Mappa classica esplorazione

Quando ero piccola, l’oggetto che preferivo tra quelli nell’auto di mio padre era l’atlante stradale. Studiarlo, immaginare le strade che solcavano le diverse regioni d’Italia. L’emozione di quando si partiva sapendo che non sarebbe stato sufficiente affidarsi al primo volume, quello dedicato alle regioni del nord. Uscire da quelle pagine un po' spiegazzate per inoltrarsi in altre, ancora lucide e per questo misteriose, mi sembrava in sé una piccola avventura.

Oggi anche io, come tutti, quando mi sposto mi affido quasi sempre alla comodità del gps integrato direttamente nel cellulare, e della vocina che mi dice dove andare.

Però.

Però ho osservato che così non impari i percorsi, perché segui le indicazioni della voce che ti guida, senza farti altre domande, senza lo stimolo di crearti dei punti di riferimento per la volta seguente. Tanto la voce non si stancherà di guidarti anche se dovessi chiedere lo stesso itinerario decine di volte.

E nemmeno provi le alternative, anche solo per il gusto di vedere cosa succede. Provare la strada parallela a quella che stai percorrendo e scoprire se c’è un palazzo con una bella facciata. O parcheggiare a qualche centinaio di metri per passare nel verde di un parco anziché su un’arteria trafficata.

La mia sensazione è che, in questo modo, il percorso non possa mai diventare realmente nostro.

Non lo costruiamo a misura dei nostri bisogni, ma ci adattiamo a parametri di altri.

E questo vale nei viaggi, ma non solo.

Fare Networking

Venerdì sera mi aggiravo sul parquet lucido di una palestra, con in faccia il sorriso tirato che indosso sempre quando devo andare ad uno dei miei personali momento patibolo: quello di fare networking.

Ci faccio i conti da un bel po’. Da quando il mio ruolo in azienda è gradualmente passato dal fare al proporre e quindi ho iniziato ad essere pagata per dedicarmi (anche) a una delle cose che mi piacciono di più.

Imparare.

Alle conferenze prendevo appunti su quello che ascoltavo e sulle idee che mi venivano, immaginavo l’applicabilità di modelli nel mio contesto, confrontavo i progetti in corso con quelli che erano già stati realizzati da altri.

E poi, arrivava il momento più tenuto. Quello, appunto, dedicato a fare networking.

Laura-Cerioli-Felicità-Valle-dAosta-Amicizia

Glielo dirò quando… Lo farò quando… Inizierò quando… sarò felice quando...

Ci raccontiamo che se non abbiamo ancora raggiunto un obiettivo è solo perché non abbiamo avuto tempo a sufficienza, e nel frattempo restiamo in movimento perpetuo, alla ricerca costante della prossima occasione per dimostrare.

Magari ci siamo impegnati al massimo per un risultato per poi renderci conto, una volta che lo abbiamo raggiunto, che in realtà non era cambiato niente. Che eravamo nervosi, preoccupati, insoddisfatti come prima di aver iniziato.

Oppure abbiamo mille idee, ma per realizzarle ci diciamo che dobbiamo essere pronti. Peccato che la vita sia cambiamento costante e quindi probabilmente questo momento perfetto non arriverà mai.

In ogni caso, viviamo aspettando di essere finalmente felici. Come se fosse un dono dall’alto, che prima o poi arriverà.

Solo che, di solito, non funziona proprio così.

Laura Cerioli Perito Moreno

Metterci la faccia.

Il titolo dell'invito al Breakfast Club sembrava scritto giusto giusto per me. Tanto più che l'ho ricevuto mentre ero alle prese con la stesura dei testi per il sito.

Ditelo, che mi avete letto nel pensiero.

Dopo quasi un anno di 25esimaora, in cui avevo condiviso senza grandi resistenze o timori quello che osservavo e vivevo e pensavo, mi stupiva non poco vedere quanto fosse differente la sensazione che provavo invece all’idea di mostrarmi in nuova veste.

Forse perché lo sentivo come un "mostrarmi in maniera ufficiale".

Così avevo ancora più voglia di tornare a confrontarmi con quel gruppo che non vedevo da mesi. Per sentire cosa significava anche per loro, metterci la faccia.

Resilienza e resistere

Pietro Trabucchi è esattamente come te lo aspetti dopo aver letto i suoi libri. Fisico asciutto, età indefinibile, uno che appena apre bocca ti fa capire che alle parole preferisce i fatti.

E in effetti, in questo giovedì sera milanese in cui è stato invitato a parlare di resilienza, non si perde in chiacchiere.

Ho letto Perseverare è umano qualche anno fa. E ho subito iniziato a regalarlo. È un po’ la prova di quanto mi sia piaciuto un libro, quando lo regalo. Vuol dire che ci ho trovato dentro qualcosa di tanto vero che mi sembra impossibile tenermelo solo per me.

Certo, sono di parte. Da maratoneta come potevo restare indifferente a chi abbraccia la teoria secondo cui l’origine della nostra forza di volontà è da individuare nelle infinite battute di caccia con cui l’uomo primitivo sfiniva le prede per poterle poi assalire?

Guardiamoci allo specchio. Dal punto di vista evoluzionistico siamo degli animali che avrebbero ben poche possibilità di sopravvivere, se ci affidassimo alla sola forza fisica. Così per millenni abbiamo fatto affidamento sulla nostra motivazione e sulla capacità di sopportare, per raggiungere un obiettivo.

La resilienza.

"Ti scrivo per chiederti: dal momento che hai deciso di cambiare vita, non hai paura, anzi terrore, di non riuscire a guadagnare a sufficienza per mantenere te e le tue passioni?”

Da quando ho aperto il blog, mi capita di aprire la posta e trovare un messaggio da una persona che non conosco. A volte, una domanda come questa.

È una delle cose che mi rende più felice, vedere che le mie parole diventano un dialogo. Anche quando la domanda non è semplice. Forse proprio perché la domanda non è semplice.

Così rileggo le due righe, e quelle che seguono. Mi fermo, ci penso.

E poi rispondo che no, non ho paura.

Londra non era prevista.

Anche se c’era, in un angolo, il pensiero che tutto sommato avrei potuto approfittare dello scalo per una giornata in città. Prendere un volo alla sera, per rivederla anche solo qualche ora. Giusto pochi giorni prima mi ero resa conto che sono cinque anni che non ci mettevo piede, da quel weekend con mia sorella (quella vera) e mia sorella (quella per anzianità di sopportazione). Tre giorni di vento, tè delle cinque, chiacchiere, un musical, stupore da bambine nei corridoi di Harrod’s, pranzi al pub.

Non ho ancora capito se l’universo mi ascolta anche troppo o se ha uno strano senso dell’umorismo.

Viaggiare è una perfetta una terapia d’urto per risvegliare sensi intorpiditi, quando tutto ci sembra piatto e poco interessante.

Per interpellare il gusto non c’è nemmeno bisogno di andare lontano.

È un percorso che parte semplicemente con le materie prime, quelle che non hanno attraversato centinaia di chilometri per raggiungere gli scaffali, il pranzo che inizia con il salame del piccolo produttore del paese e finisce con una crostata preparata con le pesche delle piante dell’orto. Le culture differenti, che sia andando lontano o incontrandole sotto casa, lo solleticando offrendo spezie, consistenze, prodotti che non gli sono familiari.

L’olfatto l’ho scoperto alla prima vacanza in moto.

Quando salta fuori che sto per partire con il mio zaino e senza accompagnatori, la seconda domanda che mi viene fatta è “Ma come fai a stare tutto quel tempo da sola?” In realtà, non va proprio così. Certo, quando viaggi in solitaria, hai sempre l’opzione di chiuderti in te stesso e osservare il mondo dalla tua bolla. Ma puoi decidere invece di mettere a frutto il naturale istinto che ci rende creature sociali. Sembra incredibile, ma persino io in queste circostanze mostro di averlo.