Inutilità del Camminare_naviglio milano

Il pensiero è sempre lo stesso, e di solito ti balena verso il terzo giorno di marcia.

In fondo, camminare è inutile.

La consapevolezza arriva quasi sempre quando il sole picchia forte sulla testa, quando inizi a fare i conti di quanti chilometri mancano all’arrivo e quanto tempo ci metterai ancora. Oppure quando a sera fai un bilancio di quello che hai ricavato dalla giornata e il risultato recita: una maglia madida che stai lavando e metterai ad asciugare per indossarla nuovamente domattina, gambe abbronzate fino al ginocchio e bianco latte sopra, sette ore di fatica per coprire una distanza pari a quella che in auto percorri in mezz’ora.

Bologna - Firenze, Via degli Dei.

Condor Argentina leggerezza

Da due mesi tutto intorno a me sembra parlare di cammino.

Conosco donne che camminano, leggo i loro libri, preparo e condivido esercizi per riflettere sul potere trasformativo di un’esperienza di cammino.

Era inevitabile mi tornasse voglia di camminare.

Infilo le scarpe che mi hanno accompagnato per le strade del Sudamerica, guardo lo zaino che attende paziente chiuso nell’armadio. Ho bisogno della felicità della leggerezza. Ho voglia di quella sensazione di libertà.

Francigena Toscana

Monteriggioni dormiva ancora, in una mattina che sarebbe diventata di festa. Guardare le mura mentre la luce iniziava ad accenderle di sfumature dorate mi ricordava ancora una volta perché l’alba è il mio momento. Un piede davanti all’altro, seguendo la sagoma del piccolo pellegrino francigeno lungo la strada che mi conduceva tra i campi di grano ancora verde, in direzione del bosco. Intorno, il silenzio.

Avrei dovuto essere perfettamente in pace, ma non era così.

Come se avessero assunto una consistenza fisica, i miei pensieri sbattevano tra di loro così forte che mi davano il mal di testa. Invece che pace, una tortura.

D’altra parte, puoi allontanarti da tutto e tutti ma resti sempre con te stesso.

Viaggiare è una perfetta una terapia d’urto per risvegliare sensi intorpiditi, quando tutto ci sembra piatto e poco interessante.

Per interpellare il gusto non c’è nemmeno bisogno di andare lontano.

È un percorso che parte semplicemente con le materie prime, quelle che non hanno attraversato centinaia di chilometri per raggiungere gli scaffali, il pranzo che inizia con il salame del piccolo produttore del paese e finisce con una crostata preparata con le pesche delle piante dell’orto. Le culture differenti, che sia andando lontano o incontrandole sotto casa, lo solleticando offrendo spezie, consistenze, prodotti che non gli sono familiari.

L’olfatto l’ho scoperto alla prima vacanza in moto.

Qual è la cosa più strana che ti sia mai mancata? A me, gli avverbi.

Mi mancano proprio, direi a pari merito con il caffè. Che è sicuramente più banale e più prevedibile. Ma è la verità.

In qualche modo mi sono adattata allo spagnolo. Già prima di partire lo capivo abbastanza, e l'immersione accelerata in un modo fatto solo di questo idioma ha accelerato il processo. Sto imparando a districarmi tra i diversi accenti, dall'Argentino con le sue esse che si sciolgono in un'inflessione che al mio orecchio poco allenato richiamava quella dei vicini brasiliani, fino ai cileni, i più difficili, per la parlata accelerata e che tende a troncare le parole.

I libri portati da casa sono finiti velocemente, e li ho lasciati via via sul percorso per i prossimi viaggiatori, sostituendoli con altri che mi conducano nella lingua e nella cultura dei luoghi in cui mi trovo. Vedo film doppiati nelle lunghe tratte di autobus. E parlo, naturalmente. Ho iniziato con le richieste pratiche, quelle che ti permettono di mangiare e dormire e spostarti da un luogo all'altro. Ho continuato raccontando di me e del mio viaggio. Ogni tanto mi mancano le parole, non so coniugare i verbi.

Ma quello che mi mette davvero in crisi sono le sfumature. Gli avverbi, appunto.

Mi pare di avere un linguaggio statico, monocorde, piatto come se gli mancasse una dimensione. Una tortura, per me che invece cerco per quanto possibile l'esattezza del senso e l'eleganza della forma.

Se mi è chiaro perché i popoli andini abbiano sempre rispettato le montagne come luoghi di vicinanza privilegiata agli dei o divinità loro stesse, la sensazione si amplifica ulteriormente quando arrivo a Pucon. La routine ormai è così collaudata che vado in automatico. È mattino presto, scendo dall’autobus, aspetto lo zaino, lo carico in spalla, seguo la mappa fino al nuovo ostello.

E poi, finalmente, alzo lo sguardo.

Il Vulcano Villarrica è lì, a scrutare la città dall'alto. Sembra quasi di poterlo toccare e io nemmeno lo avevo visto, con lo sguardo basso di quando vai troppo di fretta. Sarà la forma perfetta di quel cono bianco, coronato da una nuvoletta che appare così innocente.

Lo trovo semplicemente ipnotico.

 

È come se i viaggi crescessero, un giorno alla volta, ciascuno con la propria personalità. Solo che difficilmente ce ne rendiamo conto, perché ben poche sono le occasioni in cui gli diamo il tempo per esprimerla.

Avevo già avuto questa sensazione in passato, quando nell'itinerario studiato a tavolino faceva capolino l'imprevisto. Non quello fastidioso. Quello che ti chiama. Quello che ti incuriosisce. Quello che ti dice di (sof)fermarti.

Quasi sempre non puoi. O non vuoi.

Stavolta, invece, avanzo lenta. La strada davanti a me è tracciata solo a matita. A Cordoba avevo scoperto che da Buenos Aires stavo risalendo il Camino Real, il percorso che dalle ricche miniere di argento della Bolivia portava al porto sul Rio de la Plata, da cui le ricchezze prendevano il mare verso le casse spagnole.

Così, eccomi a Potosì.

Quando salta fuori che sto per partire con il mio zaino e senza accompagnatori, la seconda domanda che mi viene fatta è “Ma come fai a stare tutto quel tempo da sola?” In realtà, non va proprio così. Certo, quando viaggi in solitaria, hai sempre l’opzione di chiuderti in te stesso e osservare il mondo dalla tua bolla. Ma puoi decidere invece di mettere a frutto il naturale istinto che ci rende creature sociali. Sembra incredibile, ma persino io in queste circostanze mostro di averlo.

Sono fortunata. Quando ero piccola, i miei genitori ci hanno fatto viaggiare parecchio. Anche se in cinque non era una passeggiata, caricare armi e bagagli e trovare il modo di tenerci sufficientemente occupati da non perdere il senno prima dell’arrivo. Sono fortunata perché mi hanno permesso di guardare oltre il muro di cinta del giardino di casa e, ancora di più, di imparare a vedere la bellezza meno scontata. E così, di imparare anche cosa fosse per me, la bellezza.

Sul sedile posteriore c’era sempre l’atlante stradale.

Da bambina, per me era un libro da aprire, sfogliare, in cui perdermi. Quei nomi così strani, quei luoghi che esistono non solo sulla carta ma anche nella realtà. Le mete, in quei viaggi, raramente erano quelle più canoniche. Ho visto Roma per la prima volta a vent’anni, da sola, ma avevo visitato Aquileia e il Friuli. Firenze era stata una tappa rapida tornando dalla Maremma. Andavamo in Abruzzo e scarpinavamo per il Parco Nazionale. Ricordo le strade di Spello, le vecchiette vestite di nero che lavoravano al tombolo. Già allora le cose nuove mi entusiasmavano, ricordo di aver cercato in ogni modo di farmi regalare tutto l'occorrente per imparare a fare quei pizzi delicati. Chissà. Forse avrebbe portato a una storia tutta diversa. O forse no.