Quello che mi ha portato a Brené Brown e alla leadership coraggiosa è, per certi versi, un percorso opposto a quello che mi ha portato al coaching.

Quando ero in azienda, vedevo il coaching come uno strumento per fare meglio il mio lavoro. In fondo, non era già gran parte di quello che mi ritrovavo informalmente a fare ogni giorno? Essere un punto di confronto per le persone, aiutarle a vedere un’altra prospettiva, dare quella spintarella che aiuta a sperimentare strumenti e metodi alternativi a quelli applicati fino a quel momento. 

Avevo affrontato il master, come aveva inquadrato già il primo giorno una delle mie compagne di corso, come un soldatino che non si tira indietro nel definire, organizzare, agire.

Ma che resta però sempre a distanza di sicurezza rispetto al proprio coinvolgimento personale.

Perché, mi dicevo, mica si deve mescolare troppo di quello che si è, con quello che si fa.

Mia madre ha sempre avuto un buon rapporto con la tecnologia. Negli anni '80 era stata scelta (o si era offerta, chissà, in effetti non gliel’ho mai chiesto) per essere tra i primi dell’ufficio a utilizzare un computer. Ho ancora una ricordo di quei manuali voluminosi e scritti troppo fitti, con cui stava imparando a usare il DOS.

Allora più che altro mi divertiva poi poter giocare ai primi videogame, in quella mezza’ora in cui mi doveva tenere in ufficio quando non sapeva dove piazzarmi. Oggi sono molto grata di questa sua dimestichezza - perché se a volte la strapazzo un po’ quando mi dice “il computer ha fatto”, dall’altra vederla che si destreggia così bene tra una chiacchierata via whatsapp con le amiche e un (per me pesantissimo, ma contenta lei contenti tutti) seminario via zoom ha reso senza dubbio meno complicato la trasformazione che abbiamo attraversato negli ultimi dodici mesi.

Alla fine mi viene da dire che si sia dimostrata più adattabile lei di me.

Che, certo, online ci devo stare per lavoro. Ma che in generale mi sento talmente saturata da sottrarmi poi a quello che non sia strettamente necessario di questa che continuo a percepire come una vita surrogata

Di Zoom fatigue si è parlato quasi subito: nel confronto mediato dallo schermo e complicato dai vincoli della linea dati, dobbiamo impegnare uno sforzo aggiuntivo per cogliere (spesso in un quadratino di pochi centimetri di lato) segnali non verbali, espressioni e inflessioni della voce, dobbiamo gestire la dissonanza tra la sensazione di essere insieme con la mente ma non con il corpo.

Non so se sia vero che non esistono più i manuali di istruzioni, in ogni caso io ero tra quelli che non li leggevano nemmeno prima.

Ci sono circostanze però in cui avere un manuale di istruzioni ci piacerebbe molto. Una chiara sequenza di azioni da seguire per avere la garanzia del risultato finale.

Si potrebbe chiamare l’approccio IKEA alla vita: partire da quello che sembra un insieme indifferenziato, seguire i passi indicati e scoprire, con una certa sorpresa, che il risultato finale è quanto meno simile all’oggetto rappresentato in copertina

Nella vita le cose sono un po’ più complicate.

E non è solo una questione di ritrovarsi con un comodino dalle gambe storte (ogni riferimento personale e fotografico non è assolutamente casuale). Quel che è certo è che, se si ha la pazienza di capire come suddividerlo in attività più semplici, anche un risultato che ci appare distante e complesso può diventare raggiungibile.

Nessun metodo ci può dare la certezza che raggiungeremo lo scopo, ma il vantaggio di seguire un processo è quello di avere un sistema di riferimento. Il che è particolarmente utile quando siamo in situazioni di incertezza, o quando abbiamo una battuta d’arresto e perdiamo fiducia e motivazione.

Che vantaggi ha la definizione di un metodo?

Io al work life balance non ho mai creduto. Quando ho iniziato a lavorare, per me era tutto molto chiaro.

Il tempo passato in ufficio era una cosa, quello fuori non c’entrava niente.

Conosco persone che in azienda cercano una famiglia, un gruppo di amici. Io no, io ero dura e pura, evitavo il più possibile qualsiasi attività che esulasse dagli impegni formali, e guai se qualcuno provava a contattarmi quando ero assente, a meno che fosse perché l’ufficio stava andando a fuoco. Andavo al lavoro per lavorare ed ero convinta che tenere una rigida separazione fosse la soluzione non solo migliore, ma quasi naturale, per non lasciarsi fagocitare eccessivamente dagli impegni professionali.

Poi non è che le cose siano andate proprio così. Per fortuna.

Ho trascorso sei anni a viaggiare su e già per l’Italia, e alla fine i miei colleghi sono diventati una rete importante non solo nel lavoro, ma nel quotidiano. Perché è bello avere la sensazione di arrivare in un luogo conosciuto, anche se in realtà ci arrivi per la prima volta. Perché sapevo che in ogni posto qualcuno mi avrebbe dato volentieri un consiglio su dove andare a cena, e anche su dove correre al mattino seguente. Perché quando ogni giorno ti svegli in una città diversa, alla fine realizzi che non è che abbia poi così tanto senso mettere una barriera insormontabile tra il lavoro e la vita

Perché vorrebbe dire che dal lunedì al venerdì non vivi, e a me vivere due giorni a settimana mica basta.

imparare ad ascoltare

Siamo la società della comunicazione costante. Abbiamo tutti la possibilità di scrivere, fotografare, raccontarci, condividere ogni pensiero e ogni cosa che stiamo facendo. Guardiamo, ma non sempre vediamo. Sentiamo, ma non è detto che ancora abbiamo capito cosa voglia dire saper ascoltare.

Ma se stiamo tutti parlando, alla fine chi è che ascolta davvero?

Cosa significa saper ascoltare

Sarà la mia passione per le parole, ma oggi vedo sempre più confusione tra ascoltare e sentire. Percepiamo le onde sonore che ci colpiscono viaggiando attraverso l’aria, ma una volta che ci hanno raggiunto, cosa ce ne facciamo?