Pranzo con un’amica che non vedevo da qualche settimana. Ci corriamo incontro e ci abbracciamo ridendo. Mi dice che la colpisce il mio sguardo, al tempo stesso pieno di pace e spalancato su quello che sta per succedere.

L’ho trovato un complimento magnifico. Che cattura tanto di quello che mi ha regalato l'esperienza del Giappone.

Sfogliando le pagine del mio diario di viaggio, mi sono resa conto che pagina dopo pagina ho collezionato istantanee altalenanti tra ammirazione e perplessità. Sensazioni spesso concentrate addirittura in un unico momento. E ancora più accentuate dal fatto che, pur essendo a migliaia di chilometri da casa, al primo impatto le similitudini del modo di vivere sembravano essere molto più forti delle differenze: gli stessi palazzi e le stesse strade affollate, la stessa fretta e le stesse vetrine di una qualsiasi città occidentale. Ma, svelandosi poco alla volta, il Giappone mi ha regalato la possibilità di stupirmi, interrogarmi, allenarmi alla modalità che favorisce maggiormente la reale comprensione – la sospensione del giudizio. Ecco quindi una lista molto incompleta e molto imperfetta delle cose che (non) ho capito in questo viaggio.

Yuba lunch in Nikko Confesso. Ero tentata dall'idea di scrivere un intero post sulla fenomenologia delle riproduzioni in plastica dei piatti, che qui in Giappone funestano le vetrine della maggior parte dei ristoranti, persino quelli dove poi si mangia bene. Ma forse è meglio cominciare invece dal principio.

Non è il primo viaggio in un luogo in cui non solo non conosco la lingua, ma anche la scrittura è un ostacolo a qualsiasi ipotesi di interpretazione.

Eppure stavolta, arrivata a Tokyo nel caos di Akihabara, tra le insegne luminose e la folla della domenica pomeriggio a passeggio, ho avuto un attimo di spaesamento, come se fossi in una bolla che non poteva in alcun modo trovare un contatto con l'esterno.

Non avere un linguaggio comune mi ha fatto trascorrere intere giornate in un silenzio quasi assoluto.

Se io non conosco una parola della loro lingua, i giapponesi da parte loro pare che con l'inglese siano in una relazione complicata. C'è chi se la cava, ma a modo suo - ed ecco così frasi, probabilmente frutto della traduzione letterale di espressioni locali, che in inglese suonano decisamente comiche. C'è chi ha invece imparato a memoria le sole espressioni che gli servono nei confronti del turista di turno - sa quindi dare una spiegazione purché non preveda alcuna interazione di ritorno. E poi c'è chi, semplicemente, l'inglese non lo sa e sta bene così.

  Sakura in Yanaka, Ueno - Tokyo

Hanami.

Cerco su Wikipedia. “È un termine giapponese che si riferisce alla tradizionale usanza di godere della bellezza della fioritura primaverile degli alberi, in particolare di quella dei ciliegi. (...) Lo spettacolo dei sakura in fiore occupa gran parte della primavera”. Ecco.

È aprile e sono in Giappone.

Wanderlust Il viaggio inizia quando tiro fuori dall’armadio lo zaino. L’ho comprato dieci anni (e molti ricordi) fa, la prima volta che sono partita veramente sola. La prima volta che ho provato a camminare sulle mie gambe (in ogni senso). Ed ho scoperto che in fondo ne ero capace. Forse anche per questo, mentre ciclicamente svuoto armadio e cassetti eliminando senza pietà tutto quello che non è strettamente necessario, da questo zaino ormai malandato e che ha bisogno di continui rattoppi non riesco ancora a staccarmi. Mi piace il rito di aprire i cassetti e scegliere ciò che porterò con me.

L’essenzialità di limitarmi al carico che posso portare sulle spalle.

Così, se ogni viaggio prende vita quando scelgo una meta, e cresce mentre mi organizzo per mettere in pausa le attività di tutti i giorni, sembra finalmente concretizzarsi negli oggetti che mi accompagneranno.

Sono un battitore libero.

Immagino di esserlo sempre stata. Di aver a tratti cercato di zittire questo aspetto di me. Perché si sa, bisogna fare gioco di squadra e contribuire al risultato comune. Non che non ci creda, nel lavorare insieme. Solo che, allo stesso tempo, mi piace essere indipendente. Darmi obiettivi. Fare piani d’azione. Realizzarli, vedere il risultato di quello che ho immaginato, a cui ho lavorato, che ho costruito e che alla fine diventa vero.

Firenze, stretti uno accanto all’altro, attendiamo la partenza schierati disciplinatamente nella nostra griglia. Sconosciuti ma tutti con in testa lo stesso pensiero, la sfida con noi stessi dei 42 km (e 195 metri, e garantisco non si tratta di un eccesso di precisione) che stiamo per affrontare. La mattinata è fresca ma già luminosa, perfetta per una gara. Scambiamo qualche parola, ognuno tra voglia di raccontare il suo sogno e un po’ di ritrosia (e scaramanzia) nell’esporsi troppo.

Corro e parlo di corsa. Lo so. Tanto. Forse per qualcuno anche troppo. Ma la corsa è una passione che, indubbiamente, definisce una parte di me.

L’arrivo di un cammino è come il finale di un romanzo: raramente risponde completamente alle aspettative.

Forse perché ormai la sequenza di giornate in cui infili sei, sette, otto ore di marcia è così consolidata che ti trovi a illuderti di poter andare avanti ad oltranza, dimenticando che sei un pellegrino da una manciata di giorni mentre stai seduta alla scrivania da anni.

Forse perché la stessa bellezza della sequenza di scorci, persone, silenzi di un percorso non potrà mai concentrarsi nelle poche ore di un giorno che pretenderesti perfetto.

Forse, banalmente ma anche oggettivamente, perché è ben difficile rituffarsi nella città mantenendo lo stesso spirito in qualche modo fuori dal tempo e dello spazio che caratterizza il pellegrino.

Monterosi – Formello, 24km

Alle otto sta già piovendo. Guardo il lato positivo della cosa: sono partita prestissimo e sono già alle cascate del Monte Gelato, i primi otto km sono andati. Ne mancano solo 16.

Vorrei fermarmi per una prima breve pausa ma, naturalmente, i locali pubblici della zona sono rivolti a turisti che a quest’ora stanno a malapena salendo in macchina per iniziare la loro gita. Forse. Con una giornata come questa immagino che più probabilmente siano tornati sotto le coperte per un’oretta di sonno extra. Il caffè è decisamente un’utopia. Mi accontento di sedermi sotto un albero sufficientemente fitto da schermare la pioggia, ancora abbastanza leggera. Mangio una banana, bevo un sorso d’acqua, controllo che lo zaino sia a posto. E in marcia.