Mi piacciono questi viaggi di notte.

Anche se c'è sempre quello che russa e anche se il termostato sembra invariabilmente bloccato su una temperatura caraibica  oppure su quella di un congelatore. Le vie di mezzo non sono contemplate, a quanto pare. Non a caso i viaggiatori abituali si sono presentati dotati di spesse coperte in cui avvolgersi. Io ho cercato di arrangiarmi con la giacca e per il resto ho semplicemente avuto freddo. Ma ho anche avuto le stelle, con Orione capovolto e le altre costellazioni di questo emisfero, che non so riconoscere ma che non per questo brillano meno. Ho avuto una luna piena che rischiarava la notte. Ho avuto l'alba sull'altopiano, la luce calda che si avvicina un passo alla volta, da dietro le montagne che bordano questa pianura a tremila metri di altezza.

Alla fine, ho deciso di saltare del tutto La Paz.

Non so cosa mi aspettassi dalla Bolivia.

O meglio. Mi rendo conto che, semplicemente, non mi aspettavo. Ogni giorno di più  - nonostante la mappa su cui ho tracciato l'itinerario, la guida su cui ho cercato conferma delle tappe, le prenotazioni sparse di cose assolutamente da vedere - questo viaggio mi ricorda di essere nato senza reali aspettative da rispettare. Sarà che il Sudamerica non è mai stato in cima alla mia lista di luoghi da vedere, quindi non era carico di un immaginario rispetto a cui confrontarsi. Così una volta che ho iniziato ad entrarci, un passo alla volta, mi ha stupito l'Argentina e mi sta ancor più sorprendendo la Bolivia.

Che sulla mappa sembra tutto sommato piccola.

 

È come se i viaggi crescessero, un giorno alla volta, ciascuno con la propria personalità. Solo che difficilmente ce ne rendiamo conto, perché ben poche sono le occasioni in cui gli diamo il tempo per esprimerla.

Avevo già avuto questa sensazione in passato, quando nell'itinerario studiato a tavolino faceva capolino l'imprevisto. Non quello fastidioso. Quello che ti chiama. Quello che ti incuriosisce. Quello che ti dice di (sof)fermarti.

Quasi sempre non puoi. O non vuoi.

Stavolta, invece, avanzo lenta. La strada davanti a me è tracciata solo a matita. A Cordoba avevo scoperto che da Buenos Aires stavo risalendo il Camino Real, il percorso che dalle ricche miniere di argento della Bolivia portava al porto sul Rio de la Plata, da cui le ricchezze prendevano il mare verso le casse spagnole.

Così, eccomi a Potosì.

Fermi, in silenzio, ci scrutiamo.

Noi dietro al parabrezza, lui ben piantato in mezzo alla strada. Come nella più classica delle rappresentazioni lui, l'asino, mantiene cocciuto la sua posizione. E noi, tre tedeschi e un'italiana saltata all'ultimo sull'auto, non sappiamo esattamente come comportarci.

Ci avevo provato, a capire se era possibile arrivare a Cachi da Cafayate. Impossibile con i mezzi, il colectivo arriva fino a Molinos da un lato e ad Angastaco dall’altro. In mezzo, quaranta km raccontati come meravigliosi e selvaggi. I tour, certo. Accettando qualche compromesso in termini di gestione dei tempi del viaggio e di prezzo. Ma che non partono per una sola persona. Insomma, una piccola avventura.

E poi quel mattino, facendo colazione, sento i tre seduti al tavolo a fianco che nominano Cachi. Esito. Ho già pagato la stanza per la notte, ho già il biglietto per Salta per la mattina successiva. Però.

Chissenefrega.

Quando salta fuori che sto per partire con il mio zaino e senza accompagnatori, la seconda domanda che mi viene fatta è “Ma come fai a stare tutto quel tempo da sola?” In realtà, non va proprio così. Certo, quando viaggi in solitaria, hai sempre l’opzione di chiuderti in te stesso e osservare il mondo dalla tua bolla. Ma puoi decidere invece di mettere a frutto il naturale istinto che ci rende creature sociali. Sembra incredibile, ma persino io in queste circostanze mostro di averlo.

Sono fortunata. Quando ero piccola, i miei genitori ci hanno fatto viaggiare parecchio. Anche se in cinque non era una passeggiata, caricare armi e bagagli e trovare il modo di tenerci sufficientemente occupati da non perdere il senno prima dell’arrivo. Sono fortunata perché mi hanno permesso di guardare oltre il muro di cinta del giardino di casa e, ancora di più, di imparare a vedere la bellezza meno scontata. E così, di imparare anche cosa fosse per me, la bellezza.

Sul sedile posteriore c’era sempre l’atlante stradale.

Da bambina, per me era un libro da aprire, sfogliare, in cui perdermi. Quei nomi così strani, quei luoghi che esistono non solo sulla carta ma anche nella realtà. Le mete, in quei viaggi, raramente erano quelle più canoniche. Ho visto Roma per la prima volta a vent’anni, da sola, ma avevo visitato Aquileia e il Friuli. Firenze era stata una tappa rapida tornando dalla Maremma. Andavamo in Abruzzo e scarpinavamo per il Parco Nazionale. Ricordo le strade di Spello, le vecchiette vestite di nero che lavoravano al tombolo. Già allora le cose nuove mi entusiasmavano, ricordo di aver cercato in ogni modo di farmi regalare tutto l'occorrente per imparare a fare quei pizzi delicati. Chissà. Forse avrebbe portato a una storia tutta diversa. O forse no.

Se la parola che ho scelto per questo 2017 è completa, forse Buenos Aires è proprio la città che faceva per me.

Tra i vari “prodotti derivati” del master in coaching, quello verso cui nutro probabilmente le sensazioni più contrastanti è legato all’opportunità di sperimentare gli esercizi che vengono poi utilizzati in sessione individuale o all’interno dei workshop. Non che sia obbligatorio, capiamoci. Ma, curiosa come sono, aver riscoperto il piacere di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo mi da grande soddisfazione. E da brava secchiona, assegnare invece un esercizio senza averlo provato in prima persona mi provoca sempre un po’ di ansia da prestazione. D’altra parte, l’effetto collaterale di un esercizio ben mirato è quello di portare nuove riflessioni, mostrare punti di vista differenti - il che raramente si realizza senza qualche piccolo scossone.

È appunto così che sono arrivata alla parola dell’anno. Ne avevo letto e sentito parlare, con differenti sfumature e modalità. E quando ho provato ad individuarne una per guidarmi nei successivi dodici mesi, mi ha dato esattamente quel momento di occavoloquestanonmelaspettavo che identifica un esercizio ben riuscito.

Ma, probabilmente era solo l’inizio.

Certe mattine ti alzi con il piede sbagliato, nessuno sembra capire quello che dici e ti sembra poco probabile che le cose possano migliorare nel prossimo (e a volte, se ti senti particolarmente pessimista, anche nel più lontano) futuro.

Ognuno ha la propria strategia per affrontare giornate così.

C’è chi infila il cucchiaio nel vasetto di gelato, chi va a fare shopping. Chi se la prende con il primo che gli capita a tiro. Chi si rifugia nella lamentela di quello che in ufficio avevamo definito “l’angolo della sterile polemica”. Io, solitamente, immagino di abbassare con tutta calma lo schermo del portatile, chiuderlo nell’armadio, uscire dalla porta e andare direttamente in stazione senza nemmeno passare da casa.

Che in pratica è quello che ho fatto.

D’accordo, non mi sono esattamente svegliata una mattina e ho fatto lo zaino per accontentare una voce che mi suggeriva insistentemente di partire. Erano probabilmente settimane o anche mesi che mi svegliavo ogni giorno con quel senso di insofferenza, di essere sempre in bilico senza riuscire a fermarmi. Con quel pensiero in testa.

La differenza è che questa volta l’ho ascoltato.

Sono due anni che sono alla ricerca, e la sola cosa che ho capito è che è dannatamente faticoso.

La verità è che, ad un certo punto, mi sono resa conto per la prima volta che tra essere in grado di raggiungere un obiettivo e avere la capacità di definirlo, c’è un abisso. E se sono la persona giusta a cui dire “Si deve arrivare là” per essere certi che “là” sarà esattamente dove arriveremo, dovesse anche cascare il mondo, quando si tratta di individuare da zero il punto di arrivo sono invece una frana.