Che poi non lo so nemmeno, se Berlino mi è piaciuta.
Non mi è piaciuta nel senso di Roma, che ogni volta che passavo di fianco al Colosseo al tramonto mi commuovevo come la prima volta.
Non mi è piaciuta nel senso di New York, in cui cercavo di sbirciare dalle finestre per immaginare come potesse essere davvero una vita lì.
Berlino è un mosaico, e sono certa che se parlassi con dieci (o cento) persone che l’hanno visitata, ciascuna mi racconterebbe una città diversa.
Sono arrivata seguendo le tracce dei ricordi felici di chi questa città la ama, o la vive, o entrambe. Una volta segnati i punti di riferimento sulla mappa, però, la strada l’ho scelta io. Aggiungendo tappe, allineandole per dar loro un senso, lasciandomi distrarre dai dettagli che attiravano la mia attenzione.
Berlino non è tedesca, anzi forse non esiste nemmeno.
Ho sentito parlare inglese, turco, russo e chissà quante lingue. Ho mangiato greco, israeliano e sudanese. L’ho attraversata in bicicletta, dalle linee nette delle architetture di Potsdamer Platz fino all’ex aeroporto di Tempelhof, dove puoi correre lungo le vecchie piste di decollo. Ho camminato inseguendo la musica di un pianista sul Landwehr Canal, di un chitarrista a Unter den Linden, di un (eccezionale) fisarmonicista sotto le anonime volte di una stazione della metropolitana.
Ma, soprattutto, ho seguito il muro.