Non tutto lo stress viene per nuocere

Cosa vi aspettate da queste giornate? 

Lo chiedo sempre, quando inizio un percorso di formazione. Le risposte cambiano a seconda dell’azienda, dei ruoli coinvolti, oltre che naturalmente dell’argomento che andremo a trattare. Ultimamente, però, c’è sempre una questione che ritorna. Che si parli di comunicazione, di gestione delle persone o di organizzazione del proprio tempo e della propria agenda.

Come si fa a gestire lo stress?

Che è una domanda diretta, ma allo stesso tempo sfuggente e complicata.

Prima di tutto, perché dipende da quale definizione di stress scegliamo: chi pensa al senso di costrizione della parola latina strictus da cui deriva il termine, vedendone quindi solo il lato negativo, di peso da sopportare e a cui, possibilmente, sfuggire.

Spesso chi offre questa chiave di lettura collega a filo doppio l’idea di stress all’idea stessa di lavoro, visto solo nella sua versione di dovere, di obbligo, a cui sottostare per motivi contingenti ma senza un reale legame con la gratificazione o l’espressione di sé.

Altri sottolineano lo stato di attivazione collegato allo stress, quell’effetto dato dall’adrenalina rilasciata dal sistema nervoso e che ci permette di reagire in modo rapido agli stimoli.

Stress che fa andare veloci, che fa pensare a soluzioni, stress che spinge nella giusta direzione.

Le emozioni sono ipotesi, non certezze.

Sono interpretazioni dell’adeguatezza delle nostre conoscenze e capacità al contesto esterno, delle risorse e delle opzioni che abbiamo a disposizione. Sono spunti di approfondimento.

Per ogni emozione che proviamo potremmo partire proprio da lì. Da chiederci cosa ci stanno dicendo, che messaggio ci vogliono comunicare.

Prendere lo stress come una domanda, anziché dare per scontato che sia una risposta.

Le emozioni sono meccanismi fisiologici, che nascono per invitarci all’azione. Per farci avvicinare o per farci allontanare. Per motivarci al supporto reciproco, per proteggerci dai pericoli.

Per garantire la sopravvivenza.

In quest’ottica, il fatto che in questo momento ci sentiamo decisamente stressati probabilmente è non solo naturale, ma anche positivo. È riconoscere che la situazione richiede di raccogliere energie e pensieri, di distinguere tra quello che merita la nostra attenzione e quello che può essere trascurato, di accettare ma non sottostare, di ritrovare ancora e ancora la motivazione ad agire.

È da un bel po’ che ho iniziato a esplorare il mio “analfabetismo emotivo”, imparare prima a riconoscere e poi a dare nome a quella strana stretta allo stomaco, a trattenere i pensieri che disegnano traiettorie intricate seguendo il respiro che si accorcia, a provare a fermarmi per trovare lo spazio sospeso in cui individuare le opzioni tra cui scegliere

E, in questo, avere mezzo cervello scientifico mi ha aiutato. Scoprire i meccanismi di funzionamento fisiologico mi affascina, capire cosa sta dietro a quello che crediamo essere la nostra guida, ovvero il pensiero razionale. 

“Ci crediamo esseri razionali che a volte sentono emozioni, mentre siamo esseri emotivi che qualche volta pensano” (Brené Brown)

Dal punto di vista evolutivo, è come se fossero passati solo cinque minuti da quando le emozioni servivano a distinguere ciò che era commestibile da ciò che era tossico, un potenziale compagno da un nemico, una fonte di sostegno da un pericolo.

Le emozioni oscure, quelle di solito etichettate come “negative” , sono più numerose, più forti, più persistenti di quelle positive – perché, prima di tutto, le emozioni dovevano proteggerci.

Ancora oggi quando siamo in difficoltà, quando siamo sotto stress, ci sentiamo altrettanto senza difese come lo eravamo di fronte a una belva feroce. Con l’aggravante di trovarci oggi all’incrocio pericoloso di due tendenze opposte: da un lato l’illusione che il progresso ci avesse sollevato al di sopra dalla nostra condizione di esseri inermi, dall’altra il confronto con un avversario che sfugge, che non vediamo, che ancora non sappiamo bene da dove viene, come funziona.

Lo stress in questo caso può anche venirci in aiuto.

È infatti lo stimolo a un comportamento adattivo, è il pungolo per crescere, impegnarci, migliorare.

Dall’altra la percezione soggettiva dello stress, soprattutto se prolungato nel tempo, influenza radicalmente la nostra efficacia nella reazione. Fino a farci sentire in bilico sul ciglio del “non ce la faccio più” – cosa che, non so a voi, ma a me di recente è capitata spesso.

Mi è sembrata perfetta allora una delle ultime puntate del podcast di Brené Brown, Unlocking Us, in cui la ricercatrice intervistava Emily and Amelia Nagoski sul loro libro Burnout [“Esaurimento”, per non usare mezzi termini].

Dentro ci ho scoperto un altro pezzo del meccanismo e quindi di cosa potevo imparare (e soprattutto mettere in pratica). Nel loro funzionamento neurologico le emozioni hanno un inizio, una parte centrale, una fine. Quando sono oscure, quindi, per tornare alla luce dobbiamo attraversarle fino in fondo, come un tunnel.

Mentre spesso restiamo incastrati a metà.

In un territorio che ci è poco familiare perché, se siamo fortunati, abbiamo imparato a esplorarlo per imitazione – dei nostri genitori, e più in generale degli adulti con cui entravamo in contatto – ma raramente ci è stato spiegato. Non siamo stati accompagnati a comprenderlo davvero, come se la consapevolezza di sé fosse qualcosa che dobbiamo sbrigare da soli, senza guida, come se impararla fosse più facile delle equazioni di secondo grado.

Ci convinciamo che il problema da risolvere, o da gestire, sia la causa scatenante dell’emozione.

Ma come il cambiamento richiede di comprendere la successiva fase di transizione, così l’emozione non sparisce come per magia una volta che attiviamo un’azione. Affrontare la paura di chiedere un favore, buttarsi in un progetto a rischio di fallire, respirare per sbollire la rabbia e poi sostenere la nostra posizione, sono solo l’inizio del processo.

Il lato positivo di questa visione è che ciò significa anche che possiamo gestire lo stress anche se la sua causa scatenante non si è ancora esaurita.

Perché, in realtà, dobbiamo gestire prima di tutto noi stessi.

Dobbiamo gestire le conseguenze fisiche di un lungo periodo di stress, la pressione che si alza, i polmoni che sembrano non trovare abbastanza aria. Dobbiamo superare la convinzione che la reazione giusta sia combattere, o almeno fuggire. Dobbiamo concederci anche la possibilità di restare fermi, di sentirci stanchi, di non aver voglia di prenderci cura degli altri, di entrare in modalità “risparmi energetico” per tutto il tempo necessario.

Lo stress non produce solo cortisone e adrenalina, ma anche ossitocina.

Ovvero l’ormone dell’attaccamento, della cura, dell’amore.

Mi guardo attorno e in questo momento pare proprio che più che adattarci ci stiamo fermando a meccanismi di reazione evitante, continuiamo a nascondere la testa sotto la sabbia, a non sbilanciarci troppo con la segreta (e anche non troppo segreta) speranza che prima o poi le cose “si sistemino”.

Stiamo mettendo pezze invece che metterci in discussione in modo autentico.

Ma forse la via d’uscita è più chiara di quello che sembra. Costruire fiducia, in noi negli altri, pensarci insieme invece che chiusi in noi stessi.

Abbracciare l’incertezza, e scoprire che proprio lì possiamo trovare il nostro centro.

Laura Cerioli
laura.cerioli@yahoo.it

People Partner | HR Transformation | Leadership Development. Lavoro a supporto di aziende in crescita, in quella delicata fase di passaggio che richiede di rivedere, ottimizzare e sistematizzare i processi interni dedicati alla gestione e allo sviluppo delle persone.

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