Cosa vuoi fare da grande?

Da bambina alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” restavo muta.

Nei colloqui a “Come si immagina tra cinque anni?” non sapevo cosa rispondere.

Eppure una volta entrata nel mondo del lavoro sembrava avessi trovato rapidamente la mia strada, ogni volta che emergeva un nuovo progetto mi proponevo, sono stata promossa a posizioni interessanti.

La verità, però, è che ho sempre rischiato poco, perché cercavo prima di tutto di evitare il fallimento.

Ci raccontiamo storie di quanto gli altri siano più coraggiosi di noi, di come per loro sia più semplice fare scelte contro corrente, perché loro ci sono nati, con quella determinazione. Tutte storie.

Abbiamo tutti paura.

Paura di non appartenere, paura di rimanere da soli. Paura di non fare la scelta giusta, paura che sia troppo tardi. Paura di essere in qualche modo sbagliati.

Credo sia così che iniziamo a costruire la corazza. Quella parola che pronunciamo per non deludere, quella parola che diciamo per essere come gli altri. Un altro sì per sentirci indispensabili, una parola taciuta pensando che tanto non fa niente.

Vogliamo mostrare la versione migliore di noi stessi, e così restiamo in territorio sicuro e non ci spingiamo a rischiare.

Ma dove saremmo, senza fallimento?

Senza ginocchia sbucciate non avremmo mai imparato ad andare in bicicletta, senza cancellature di quelle che bucano il foglio non avremmo imparato a scrivere. Francesca Corrado ne ha fatto una vera e propria battaglia culturale: il recente volume intitolato Elogio del Fallimento segue la fondazione della prima Scuola del Fallimento, che usa la simulazione per far sperimentare in prima persona ai partecipanti, attraverso il gioco e il teatro, che il fallimento è normale, anzi necessario.

Perché prima o poi capita a tutti. Nel lavoro, a scuola, nello sport, nelle relazioni.

Il concetto di fallimento è fortemente connotato storicamente, e non siamo messi bene in proposito: nella nostra cultura si associa ancora a un’idea di perdita di dignità, a volte di colpa, certamente di vergogna, il che fa sì che cerchiamo di evitarlo con ogni mezzo.

Per quello ci rifugiamo nella comfort zone, che ci rassicura e dove ci sentiamo al riparo.

Sappiamo che a volte dove siamo fa schifo, ma almeno è uno schifo che conosciamo, e questo ci fa meno paura di affrontare l’incertezza.

Uscire dalla comfort zone non è semplice, ma mentre studiavo per il progetto #seguilatuabussola ho scoperto due metodi che mi hanno dato una prospettiva nuova.

La peggior catastrofe possibile

Inizia a fare una lista delle tue paure, da quelle razionali e tutto sommato plausibili a quelle che invece lo sono molto meno (o per niente). Per ogni paura assegna un voto in una scala che va da 1 (quasi non me ne accorgo) a 10 (panico totale). Una volta indicata questa prima valutazione, vai a darne una seconda chiedendoti quale sarebbe l’impatto se questa paura si realizzasse, sempre secondo una scala da 1 (era tutto qui?) a 10 (mi cambia per sempre la vita).

Io lo avevo testato sui miei progetti lavorativi, pianificando le attività prima della pausa estiva, e di certo non mi aspettavo quello che ne sarebbe uscito. Un paio di paure che mi sembravano enormi avevano tutto sommato una soluzione alternativa più che percorribile. Un paio non erano realmente paure ma progetti a lungo termine su cui affrontare la vertigine della mancanza di controllo, investire rischiando che il ritorno non fosse quello sperato.

Una paura, quella legata alla scrittura, non era davvero una paura, ma l’ego che non voleva mettersi in discussione.

Così prima di partire per il Giappone mi sono data questo compito. Ho affrontato la paura. Individuare riviste su cui avrei voluto scrivere, programmi a cui avrei voluto partecipare. Ho scritto per propormi. Livello di paura? 8. Rischio reale? 4, forse anche 3. Non mi immagino a scrivere per vivere, ho il blog per raccontarmi, mi piace chi mi commenta e mi fa sapere che quello che ho scritto gli ha trasmesso qualcosa. Insomma, più che paura è vanità, e si può vivere con un po’ di delusione.

Disegna la tua strada

Il secondo metodo arriva da Stanford e dal design thinking, che mi aveva incuriosito quando ero in azienda, avevo recuperato e approfondito per definire la mia attività, ho ripreso a studiare negli ultimi mesi per integrarlo – appunto – in #seguilatuabussola.

Il design thinking è un metodo che cerca soluzioni a problemi. Osserva, definisce, ipotizza in modo creativo, sperimenta su piccola scala, testa. Nasce per mescolare logica e creatività, mette al centro il problema e il contesto, perché è da lì che devono essere individuati gli elementi necessari nella soluzione.

Risponde alla domanda “Come potremmo fare?” offrendo una nuova prospettiva alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?”

Non si misurano le idee in successi o fallimenti. Alcuni prototipi non raggiungono i loro obiettivi, ma il loro scopo era prima di tutto farci imparare, fare dei progressi.

Se disegni la tua vita non puoi fallire.

Le nostre vite sono un processo creativo senza fine, possiamo solo fare progressi. Anzi i piccoli fallimenti sono la chiave per essere pronti nelle cose importanti. Questa settimana ho intenzione di sedermi anche io a immaginare i miei itinerari. Cercando di ricordare quello che voglio fare, ma soprattutto chi voglio essere.

Tu quale prototipo di te stesso sei pronto a testare?

Laura Cerioli
laura.cerioli@yahoo.it

People Partner | HR Transformation | Leadership Development. Lavoro a supporto di aziende in crescita, in quella delicata fase di passaggio che richiede di rivedere, ottimizzare e sistematizzare i processi interni dedicati alla gestione e allo sviluppo delle persone.

3 Comments
  • Antonio
    Posted at 10:12h, 18 Maggio Rispondi

    Come sempre metti a fuoco ciò che di più complesso ci sia: la nostra esistenza. Da essere razionale, la frase che ha colto nel (mio) segno questa volta è:”mescolare logica e creatività, mettere al centro il problema e il contesto, perché è da lì che devono essere individuati gli elementi necessari nella soluzione.”. Cerco di farlo ogni giorno e quando questo diventa un frutto, in molti attingono ed io lo dono con molta gioia e spesso fatica. La speranza è sempre quella di sapere che qualcuno mette un semino in una pianta: chiamiamola passione, per comodità, o dedizione, per convenzione. Amore, in estrema i-ratio! Grazie come sempre!Antonio Aliotta

    • Laura
      Posted at 08:56h, 20 Maggio Rispondi

      Un seme che forse dobbiamo coltivare tutti insieme, per proteggerlo quando è ancora solo un germoglio e lasciare che diventi un albero che regala frutti e ombra non solo per noi ma anche per tutti quelli che incrociano la nostra strada – grazie a te Antonio!

  • Michele
    Posted at 11:24h, 20 Maggio Rispondi

    Da bambino a scuola ho imparato di rispondere qualcosa alle domande dei adulti. L’obiettivo era di essere parte del gruppo. Ma mia risposta sulla domanda che vorrei fare nel futuro era già significativa diversa, a quella dei compagni. Tutti volevano diventare calciatori, io invece ingegnere meccanico!

    Ma perché? Mi sono sempre chiesto, qual è la, o da dove arriva questa programmazione?

    C’era davvero un ingegnere meccanico nelle nostre vicinanze, che mi ha dato questo fascino! Ma da bambino non sapevo niente della ingegneria! Era sa sua apparenza che mi dava effetto!

    Beh, non ero mai felice a pensare al futuro, soprattutto perché mi staccava sempre dal essere!

    Perdo tutti i test del personaggio perché nego di essere interessato al futuro!

    Quindi tanti fallimenti! Ma secondo me i fallimenti mi hanno fatto crescere più che successi! Quindi se apro una scuola la chiamerò anche ‘scuola del fallimento vero’.

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