(In)vulnerabilità

Scrivo preparando lo zaino, e quando la prima persona leggerà queste righe sarò dall’altra parte del mondo. Dentro allo stomaco sento mescolarsi l’agitazione e la quiete che provo di fronte a un nuovo lungo viaggio, l’emozione dell’attesa e la costante domanda se sia giusto, se si possa fare, se me lo merito. In pratica, la mia definizione di vulnerabilità.

Ho sentito parlare per la prima volta di Brené Brown tre anni fa. Quando Eloisa mi aveva suggerito quel TED Talk da decine di milioni di visualizzazioni, lo avevo cercato subito: avevamo iniziato il master solo da qualche settimana, ma lei e io ci eravamo riconosciute immediatamente. Un traccia comune in tanti snodi dei rispettivi percorsi, la stessa curiosità di scoprire qualcosa di nuovo. Sapevo che mi potevo fidare di un consiglio che arrivava da lei, ma non sapevo ancora quale traccia avrebbe lasciato.

Nel video avevo scoperto una texana che parlava in modo appassionato di una parola che facevo fatica anche solo a pronunciare.

Vulnerabilità.

Quando si dice dell’importanza delle parole.

Quelle che scegliamo, ma prima ancora come le scegliamo. Se ci soffermiamo a valutarne il peso, la sfumatura. Un gesto che facciamo migliaia di volte al giorno senza nemmeno pensarci, senza nemmeno realizzare la sua potenza. Il significato individuale che attribuiamo a ogni vocabolo, che non è detto sia identico a quello di chi ci ascolta.

Per me vulnerabilità significava solo una cosa. Debolezza.

E io non ho mai voluto essere debole.

Volevo essere sicura, pratica, protetta nella bella armatura di chi fa tutte le cose come si deve.

Solo che ad un certo punto l’armatura aveva iniziato a starmi stretta. Mi ero accorta quanto fosse pesante, quanto mi tenesse ancorata a terra invece di lasciarmi muovere leggera come avrei desiderato.

L’armatura mi aveva fatto credere di essere forte, ma era solo un’illusione.

Ero convinta di tenere tutto sotto controllo, dimenticando che possiamo controllare ben poco, e non è detto che siano le cose più importanti.

Essere vulnerabili non è semplice. Anzi, è una gran fatica.

La ricetta che ci hanno insegnato per essere parte di un gruppo va nella direzione opposta. Adattarci, trovare sempre una mediazione, fare quello che ci si aspetta da noi anche se non è quello che vorremmo. Mentre la vulnerabilità è esprimere la nostra verità accettando le conseguenze, scegliere di vivere secondo la nostra essenza, mostrare quello che per noi è veramente importante e condividerlo con chi ci sta vicino.

Solo che la cosa ci fa dannatamente paura.

Non ci raccontiamo perché pensiamo di essere gli unici, a sentirci così. Ed è proprio questo, il meccanismo della vergogna.

Nel suo primo libro Credevo fosse colpa mia (ma non era vero) Brené Brown aveva identificato le cosiddette identità indesiderate: dodici categorie in cui i modelli dati dal contesto culturale, sociale e familiare sono così forti da determinare solo due opzioni –  allinearci pur di non essere percepiti come non conformi, o avere la costante sensazione di essere sbagliati.

Impariamo ben presto cosa possiamo o non possiamo dire, cosa possiamo o non possiamo fare, e di conseguenza costruiamo un nostro io ideale che iniziamo a portare in giro finché non sappiamo più distinguere le nostre reali aspettative da quelle che ci derivano dall’esterno.

Ecco allora la differenza tra vulnerabilità e debolezza. 

Siamo deboli quando accettiamo la vergogna, ci giudichiamo ancor prima di sapere cosa ne penseranno gli altri, neghiamo una parte di noi che non riteniamo adeguata.

Siamo vulnerabili quando siamo consapevoli della nostra imperfezione ma scegliamo di lavorarci, di definire i nostri spazi e i nostri tempi, di raccontare a chi ci sta intorno chi siamo veramente.

Togliere la corazza fa paura, perché anche se ci rendiamo conto che è un limite e non una protezione non sappiamo cosa succederà quando saremo senza.

Ci riconosceranno ancora? Come resisteremo se saremo attaccati?

Spesso dicono che non dovremmo preoccuparci di quello che gli altri pensano di noi, ma non è del tutto vero. Se l’opinione degli altri ci è indifferente significa che ci siamo chiusi in noi stessi, senza permettere a nessuno di avvicinarci.

Quello che pensano gli altri ci deve importare, ma non ci deve definire.

A definirci sono le nostre scelte.

Io ho scelto che da grande voglio essere la ragazza che viaggia, che scrive, che racconta le persone che incontra. Quella che mette tutta l’energia nel lavoro ma poi prende lo zaino e parte regalandosi lo spazio della scoperta. Quella che sogna in grandissimo e che i suoi sogni se li va realizzare.

Tu qual è la storia che hai raccontato finora a te stesso (e agli altri)? Qual è la storia che vuoi raccontare?

Laura Cerioli
laura.cerioli@yahoo.it

People Partner | HR Transformation | Leadership Development. Lavoro a supporto di aziende in crescita, in quella delicata fase di passaggio che richiede di rivedere, ottimizzare e sistematizzare i processi interni dedicati alla gestione e allo sviluppo delle persone.

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