Benedetta primavera
23 Ottobre 2018
Su una cosa non ci sono dubbi. In questa nuova vita che mi sono scelta non mi annoio mai. Ci sono giorni luminosi come a primavera e altri grigi come se il sole si fosse dimenticato di sorgere, proprio come in queste giornate di un autunno che stenta ad arrivare. A volte non è semplice, ma è anche il suo bello.
Lavoro con due tipologie di clienti molto differenti.
Da un lato ci sono gli uomini: di solito hanno qualche anno più di me, un lavoro che hanno amato ma che non dà più la stessa soddisfazione, la curiosità di capire cosa significa nel concreto fare un percorso per (ri)scegliere la propria strada. Con loro metto in gioco la mia parte più operativa, le competenze di tanti anni di azienda, gli strumenti che mi sono allenata a usare. A volte si lasciano andare e aprono uno spiraglio anche su pezzi di vita al di là del tema del lavoro, a volte non lo fanno e restiamo concentrati solo sulla direttrice principale. In ogni caso, hanno quasi sempre chiaro in mente perché sono lì: si sono detti “Ho un problema” e hanno cercato una soluzione.
Le donne sono molto diverse. Anche loro spesso arrivano con la stessa richiesta, vogliono cambiare lavoro e sentono lo stesso bisogno di comprendere perché non si sentono più nel posto giusto. Ma nel percorso che facciamo insieme, il tema professionale diventa quasi sempre un “di cui” all’interno di qualcosa di molto più grande. Sono donne forti e irrequiete, che dopo aver tentato mille strade tendono a dirsi “Sono il problema”, donne che in realtà a volte pensano che la soluzione migliore sarebbe accontentarsi della strada tracciata, perché è quello che fanno le persone adulte.
Donne divise a metà, tra il senso del dovere e il proprio bisogno profondo.
Io sono una di loro.
Spesso l’unica differenza tra di noi è che io ho avuto la fortuna di iniziare a pormi questi dubbi qualche anno fa. Inquieta pur non mancandomi niente, secondo il senso comune. Con il peso di sentirmi un’ingrata nel momento in cui ho messo tutto in discussione, in cui mi sono messa al centro chiedendo a tutto il resto del mondo di restare zitto e fermo almeno per un istante.
La chiama(va)no crisi di mezza età, e guardando la mia data di nascita hanno un fondo di ragione.
Siamo a metà, al giro di boa. E probabilmente una certa ansia di prestazione questa consapevolezza la crea. Quello che non mi piace è la tensione provocata dalla parola crisi. Che sì, lo sappiamo, la crisi è certamente un’opportunità, e chiusa una porta si apre un portone e non so quante altre perle di saggezza popolare. Peccato che questa prospettiva possa arrivare solo dopo, quando sei passato attraverso il tumutlo, mica quando ti senti nel bel mezzo della palude. Finché ho trovato un’espressione perfetta.
Il risveglio di mezza età.
Sarà stata questa coda infinita di estate, l’aria dolce e il sole del pomeriggio che invitava ancora ad uscire con un vestito leggero, ma sono settimane che sostengo che per me è ancora primavera. Nuove idee, nuovi progetti. Con una consapevolezza nuova, quella che arriva quando capiamo che il tempo che passa non è buono né cattivo, scorre solo e sempre nella stessa direzione come è nella propria natura.
Un fiume in cui possiamo tuffarci e nuotare godendoci ogni momento, oppure che possiamo guardare seduti sulla riva. Il fiume scorre, e noi non possiamo fare niente per fermarlo o rallentarlo. Tanto meno per nuotare controcorrente. È il momento in cui ci rendiamo conto che siamo andate sempre a tutta velocità, ma spesso non sapevamo verso dove.
Soprattutto non sapevamo perché.
Quindi sì, è certamente una crisi. Perché non è semplice svegliarsi nel cuore della notte con il testa il dubbio di ciò per cui hai lottato fino a questo momento, l’interrogativo sul senso di tante scelte, la vertigine di quello che hai lasciato. Può diventare terrore di aver sprecato tanto, troppo tempo se continuiamo a fissare lo sguardo su quello che siamo stati, invece che su quello che potremmo essere. Se ci aggrappiamo alle nostre posizioni in nome della coerenza, per restare fedeli a noi stessi.
I nostri valori profondi restano: sono quelli che ci guidano nelle diverse fasi di vita, permeando la nostra identità e indirizzando le nostre scelte. Ciò che crediamo, però, evolve e si trasforma grazie a ciò che avviene attorno a noi, e allo sguardo con cui lo osserviamo.
Le regole del mondo, a cui pensavamo di credere e a cui ritenevamo di doverci conformare, ci appaiono a un tratto per quello che sono: scorciatoie per semplificare il contatto con gli altri, espressione di bisogni che non ci appartengono del tutto, sotterfugi per evitare il confronto, ripari per non metterci in discussione, per timore del giudizio di chi ci guarda.
È un risveglio che ci chiama a metterci in movimento.
Perché la felicità non è un luogo, un traguardo definito o definibile. Ce lo racconta Tomas Espedal nel suo Camminare dappertutto (anche in città), raccontando di questo gesto quasi invisibile nella velocità moderna, senza clamore, che mostra però la sua potenza diventando un momento in cui
“non ricordiamo più la nostra età, gli errori che abbiamo commesso e le delusioni a cui siamo andati incontro, viaggiamo e crediamo di muoverci a ritroso, verso la giovinezza […] Il viaggio si aspetta che andiamo incontro al mondo con uno sguardo aperto, uno sguardo giovane […] e noi ci lasciamo sedurre più che volentieri.”
Ci muoviamo per cercare un punto di vista nuovo, risvegliare lo stupore della scoperta, trovare la pazienza di prenderci cura di germogli tanto belli quanto delicati, tra attesa e leggerezza.
Insomma, quello che succede ad ogni (benedetta) primavera.
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