In viaggio contromano

In viaggio contromano

Da bambina, non ho mai sognato il giorno del mio matrimonio. Dei giochi d’infanzia ricordo un sacco di tela che racchiudeva i mattoncini con cui passavo interi pomeriggi a costruire città, la mia automobilina preferita, blu con il numero bianco, il muro di cinta che scavalcavo arrampicandomi sul ramo di una pianta di fichi. Già allora ero allergica ai confini, a quanto pare.

Forse scrivo proprio per questo.

Perché, come ho letto in un bellissimo pezzo di Bianca Borriello,

“Gli uomini raccontano storie per accorciare le distanze. Le distanze tra se stessi e gli altri, le distanze tra l’incomprensibile e il compreso, le distanze tra l’accaduto e il ricordo.”

Il mio bisogno di indipendenza, di ricerca, a volte mi fa sentire sola.

Anche se ho la mia rete che mi protegge, che mi fa sentire sicura persino quando sono a migliaia di chilometri di distanza. Sarà per questo che sento una stretta al cuore quando vedo una coppia anziana che cammina lenta, tenendosi per mano.

E sarà per questo che mi ha commosso così tanto In viaggio contromano di Michael Zadoorian, la storia di Ella e John, anziani e malati, che salgono sul loro camper per ripercorrere la Route 66, lasciando le strade familiari di Detroit per attraversare una dozzina di stati fino alla California e a Disneyland. Sfidano il parere contrario del medico, i figli che si preoccupano forse soprattutto al pensiero di doverli andare a recuperare, la paura di attraversare centinaia di chilometri sconosciuti e desolati.

Lo ammetto, ho pianto senza ritegno.

Sarà che, al contrario di quanto dice Paolo Giordano nella prefazione del libro, per me la Route 66 è uno dei ricordi di viaggio più belli. Certo, una volta tornata a casa anche io alla domanda “Qual è la cosa più bella che hai visto?” facevo un po’ fatica a spiegarlo. Astronauti giganti, cisterne dell’acqua trasformate in smile giganteschi, una balenottera di cemento per tuffarsi in uno stagno.

La Route 66 non è quello che vedi, ma la storia che racconta.

Era la via di fuga di migliaia di famiglie dalla dust bowl e dalla grande depressione, alla ricerca di una nuova e scintillante vita nella West Coast. Ancora oggi più che un percorso fisico è il percorso di vita delle persone che incontri in paesi tutti uguali, casette a un piano lungo la Main Street, il mondo congelato a cinquant’anni fa. Una tettoia sotto cui bere una limonata ghiacciata, un fast food dai colossali milk shake che sembra atterrato dallo spazio nel mezzo del nulla, una stazione di servizio la cui insegna cigola appena.

Leggevo di Ella e John e rivedevo il deserto, sentivo il caldo e la polvere, assaporavo i gusti che cambiavano di stato in stato.

Bianca Borriello racconta della nonna, ammalata “di vecchiaia”. Che un giorno, all’improvviso, si rivolge a lei senza riconoscerla e le chiede di fare una lista  di cose da comprare.

“Mia nonna mi guardò e, forse, mi vide, perché rise con i suoi denti allineati e perfetti e disse “m’aggia spusà”. Mi devo sposare. Mia nonna Clara aveva 78 anni, denti bianchi e perfetti, 7 figli tutti viventi, quindici nipoti tra i quali io, e aveva l’Alzheimer.”

Anche John non ricorda, spesso non riconosce Ella. Dovevo chiudere il libro, quando arrivavo a quei passi.

I giorni più belli non vorremmo andassero mai persi. Vorremmo poterli fermare, tenere con noi.

Ci proviamo con le infinite foto che scattiamo, ci provo con i taccuini in cui fermo parole ma anche e soprattutto sensazioni, sfumature per trattenere l’essenza di un momento perfetto.

“Perché il mondo deve distruggere tutto ciò che non è conforme? Non ci renderemo mai conto abbastanza che è la ragione principale per amare qualcosa.”

Ella e John guardano vecchi caricatori di diapositive. Si avvicina un gruppo di motociclisti, la scorza dura che si apre riconoscendo la bellezza, la forza, il coraggio di costruire una vita insieme. Immagino la scena, nel cortile di un motel, il solo fatto di essere sullo stesso percorso che abbassa le barriere e rende insignificanti le differenze tra le nostre identità quotidiane.

Chissà perché sembra ci riesca quasi solo quando siamo in vacanza, quando togliamo, metaforicamente e non, i panni che accettiamo di lasciarci imporre dalle regole del mondo.

Chissà perché abbiamo tanto timore di scoprire cosa siamo veramente.

“Noi due insieme, come siamo sempre stati, senza parlare, senza fare niente di speciale, semplicemente in vacanza. Lo so che niente dura, ma anche quando ti rendi conto che qualcosa sta per finire, puoi sempre voltarti indietro e prendertene ancora un po’ senza che nessuno se ne accorga.”

Buona estate.

Laura Cerioli
laura.cerioli@yahoo.it

People Partner | HR Transformation | Leadership Development. Lavoro a supporto di aziende in crescita, in quella delicata fase di passaggio che richiede di rivedere, ottimizzare e sistematizzare i processi interni dedicati alla gestione e allo sviluppo delle persone.

2 Comments
  • Giulia Moretto
    Posted at 11:47h, 25 Luglio Rispondi

    Credo che il timore di scoprire cosa siamo veramente sia la scoperta di essere umani, fallibili e dispensabili. Ma è la nostra unicità che accorcia le distanze.
    Buone vacanze, Laura!

    • Laura
      Posted at 12:05h, 25 Luglio Rispondi

      Sì Giulia, avere forse paura che la distanza cancelli anche il ricordo. Cancelli noi. Tornare per imparare la nostra vulnerabilità: forse il viaggio più lungo e tortuoso che potessi immaginare! Buone vacanze anche a te 🙂

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