Qual è la cosa più strana che ti sia mai mancata? A me, gli avverbi.

Mi mancano proprio, direi a pari merito con il caffè. Che è sicuramente più banale e più prevedibile. Ma è la verità.

In qualche modo mi sono adattata allo spagnolo. Già prima di partire lo capivo abbastanza, e l'immersione accelerata in un modo fatto solo di questo idioma ha accelerato il processo. Sto imparando a districarmi tra i diversi accenti, dall'Argentino con le sue esse che si sciolgono in un'inflessione che al mio orecchio poco allenato richiamava quella dei vicini brasiliani, fino ai cileni, i più difficili, per la parlata accelerata e che tende a troncare le parole.

I libri portati da casa sono finiti velocemente, e li ho lasciati via via sul percorso per i prossimi viaggiatori, sostituendoli con altri che mi conducano nella lingua e nella cultura dei luoghi in cui mi trovo. Vedo film doppiati nelle lunghe tratte di autobus. E parlo, naturalmente. Ho iniziato con le richieste pratiche, quelle che ti permettono di mangiare e dormire e spostarti da un luogo all'altro. Ho continuato raccontando di me e del mio viaggio. Ogni tanto mi mancano le parole, non so coniugare i verbi.

Ma quello che mi mette davvero in crisi sono le sfumature. Gli avverbi, appunto.

Mi pare di avere un linguaggio statico, monocorde, piatto come se gli mancasse una dimensione. Una tortura, per me che invece cerco per quanto possibile l'esattezza del senso e l'eleganza della forma.

Se mi è chiaro perché i popoli andini abbiano sempre rispettato le montagne come luoghi di vicinanza privilegiata agli dei o divinità loro stesse, la sensazione si amplifica ulteriormente quando arrivo a Pucon. La routine ormai è così collaudata che vado in automatico. È mattino presto, scendo dall’autobus, aspetto lo zaino, lo carico in spalla, seguo la mappa fino al nuovo ostello.

E poi, finalmente, alzo lo sguardo.

Il Vulcano Villarrica è lì, a scrutare la città dall'alto. Sembra quasi di poterlo toccare e io nemmeno lo avevo visto, con lo sguardo basso di quando vai troppo di fretta. Sarà la forma perfetta di quel cono bianco, coronato da una nuvoletta che appare così innocente.

Lo trovo semplicemente ipnotico.

Venire fino in Cile e andare ad Iquique e non a San Pedro di Atacama è un po’ come visitare l’Italia e saltare Venezia preferendole Treviso.

Con tutto il rispetto per Treviso, naturalmente.

Atacama è un'altra delle superstar del turismo sudamericano, con i suoi geyser e le sue formazioni geologiche. Era anche sulla mia, di mappa. Ma sono rimasta più del previsto in Peru, conquistata dalla sua storia e dalle sue bellezze naturali. Mi sono trovata a dover scegliere tra il nord e il sud del Cile. E per arrivare in Patagonia, la cui natura mi chiama fin da prima della partenza, preferisco evitare tentazioni. Eccomi sulla costa, quella fascia pianeggiante chiusa tra l'Oceano Pacifico e l'arida precordigliera, che sembra scorrere tutta uguale fuori dal finestrino dell'autobus.

Arrivo ad Iquique in un giorno festivo e le strade sono desolate (e desolanti). 

Le vacanze di europei e americani sono terminate, Argentini e Cileni si muoveranno a partire da inizio dicembre, con le festività e l'inizio dell'estate. Così ogni volta che arrivo in ostello scopro di avere a disposizione un sacco di spazio, ma molte strutture turistiche stanno approfittando di questo periodo per prendere fiato o rinnovarsi. Chiedo un suggerimento a Ivan, il proprietario che mi sta rimpinzando con la colazione che è il vanto della sua ospitalità. Mi racconta del passato minerario della città, della madre nata in uno degli agglomerati sorti per ospitare i lavoratori e le loro famiglie.

Arrivo ad Humberstone, e mi chiedo chi mi abbia catapultato nel selvaggio west senza nemmeno passare dal via.

Sono bravissima, a farmi prendere dai dubbi se qualcosa non corrisponde esattamente a quanto pianificato. A tornare alla cara abitudine di cercare di controllare tutto.

Anche quello che, è evidente, non si può controllare.

Huancayo certo non mi aiuta. Una città caotica e bruttina, dove l’unica attrattiva da visitare, la Cattedrale, è impacchettata per lavori. Il cielo è grigio e io mi ritrovo subito di cattivo umore. Francamente, dopo la prima mezza giornata penso che sia stata una sosta inutile. E subito metto in discussione tutto il cambio di programma che mi ha fatto deviare dall’itinerario previsto. Mi chiedo se ne sia valsa la pena, aver messo in conto qualche decina di ore di autobus extra e qualche tappa in meno in Cile. 

Per fortuna, questo viaggio che scorre rispetto alle cose viste piuttosto che rispetto ai giorni della settimana, mi sta insegnando una cosa che ignoravo quasi completamente.

Fermarmi.

Dove tutto è nuovo, mi rendo conto di quante cose ignoro completamente. E vivo la condizione privilegiata di essere di nuovo una bambina che impara. Che si può prendere il tempo per scoprire, che non ha timore di cosa penseranno di lei per le domande, magari banali, che sta facendo.

Perché ignorare non è un verbo di cui vergognarsi.

A meno che la nostra ignoranza sia una scelta, quella di chi si rende conto di non sapere e continua a distogliere lo sguardo. Se invece è la molla per crescere, ben venga. Così, arrivata a metà del viaggio, il corpo ha (relativamente) rallentato ma la testa è tornata a balzare da un pensiero all'altro come una scimmietta curiosa, svuotata di ritmi, obblighi, automatismi.

Se qualcosa cattura la mia attenzione, la seguo.

La cholita continua a passare pacchi, il guidatore li incastra in un castello colorato che si innalza sopra alle fondamenta costituite dalle valigie degli altri passeggeri.

Penso che nel mio ultimo trasloco c'era meno roba.

Seguo lo sguardo poco convinto di uno degli altri viaggiatori e concordo che sì, la regolamentazione sul carico massimo trasportabile non deve essere in cima ai pensieri dell’autista. Per non parlare della sagoma, avvolta strettamente nella cerata blu.

Poi, il colpo di scena. Non ci sono abbastanza posti a sedere.

La cholita cerca di convincere l'autista a far stringere gli altri passeggeri. Lui è dubbioso. Gli sguardi sono eloquenti.  Nessuno pensa di poter di passare sei ore di tornanti più stretto di quanto già sia, con il bagaglio a mano in grembo e a malapena il posto per le gambe. Così la danza riprende. I pacchi colorati scendono uno alla volta. Io spero che non ci finisca in mezzo anche il mio zaino, cerco di guardare dallo specchietto retrovisore. Finalmente, si parte.

Ma alla fine, esattamente, perché sono finita su questo minibus sperando che non si ribalti alla prima curva?