La strada che lascia Puno costeggia il lago e prosegue in un falsopiano infinito. Sembra impossibile, ma saliamo ancora. Dopo i primi giorni l'altitudine non bussa più con il costante mal di testa sperimentato nel Salar di Uyuni, ma unendosi all'andatura dondolante dell'autobus ad un certo punto mi fa assopire. Apro gli occhi in una valle ampia, con vette imponenti che osservano dall'alto, coronate dalle nuvole che si stanno raggruppando. Case isolate, mandrie di vacche al pascolo. Le rotaie del treno sembrano giocare con la strada, abbracciandola e inseguendola, ora da un lato ora dall'altro. Un villaggio più grande, è domenica, un minuscolo mercato. Ogni tanto qualcuno che cammina, lungo l'asfalto o lungo la ferrovia.

Chissà da dove arriva, chissà dove è diretto.

Ho visitato le Isole Uros.

Islas Flotantes, costruite artificialmente da questa popolazione in fuga dai Colla e poi dagli Inca, che li volevano assoggettare. Parecchio litigiosi, questi popoli andini. Mi pare si guardino in cagnesco anche oggi, molto fieri della propria patria e spesso con qualcosa da recriminare nei confronti dei vicini. Sia come sia, gli Uros hanno sfruttato le totoras, le canne che crescono abbondanti in questa parte del Titicaca, e si sono inventati lo spazio in cui stare. Il proprio posto nel mondo.

Lo sapevo, che era una gita da turismo mordi e fuggi.

Arrivi in una delle tante barche che fanno la spola dal porto turistico di Puno. Scendi con passo malfermo sugli strati di canne fresche, che vengono via via accumulate per garantire lo spazio di ciascuna micro comunità familiare. Ascolti la dimostrazione di come ogni isola è stata costruita da zero. Per finire, proposta di rito di prodotti di artigianato da portare a casa come ricordo.

Lo sapevo, e sono andata lo stesso.

Mi piacciono questi viaggi di notte.

Anche se c'è sempre quello che russa e anche se il termostato sembra invariabilmente bloccato su una temperatura caraibica  oppure su quella di un congelatore. Le vie di mezzo non sono contemplate, a quanto pare. Non a caso i viaggiatori abituali si sono presentati dotati di spesse coperte in cui avvolgersi. Io ho cercato di arrangiarmi con la giacca e per il resto ho semplicemente avuto freddo. Ma ho anche avuto le stelle, con Orione capovolto e le altre costellazioni di questo emisfero, che non so riconoscere ma che non per questo brillano meno. Ho avuto una luna piena che rischiarava la notte. Ho avuto l'alba sull'altopiano, la luce calda che si avvicina un passo alla volta, da dietro le montagne che bordano questa pianura a tremila metri di altezza.

Alla fine, ho deciso di saltare del tutto La Paz.

Non so cosa mi aspettassi dalla Bolivia.

O meglio. Mi rendo conto che, semplicemente, non mi aspettavo. Ogni giorno di più  - nonostante la mappa su cui ho tracciato l'itinerario, la guida su cui ho cercato conferma delle tappe, le prenotazioni sparse di cose assolutamente da vedere - questo viaggio mi ricorda di essere nato senza reali aspettative da rispettare. Sarà che il Sudamerica non è mai stato in cima alla mia lista di luoghi da vedere, quindi non era carico di un immaginario rispetto a cui confrontarsi. Così una volta che ho iniziato ad entrarci, un passo alla volta, mi ha stupito l'Argentina e mi sta ancor più sorprendendo la Bolivia.

Che sulla mappa sembra tutto sommato piccola.

 

È come se i viaggi crescessero, un giorno alla volta, ciascuno con la propria personalità. Solo che difficilmente ce ne rendiamo conto, perché ben poche sono le occasioni in cui gli diamo il tempo per esprimerla.

Avevo già avuto questa sensazione in passato, quando nell'itinerario studiato a tavolino faceva capolino l'imprevisto. Non quello fastidioso. Quello che ti chiama. Quello che ti incuriosisce. Quello che ti dice di (sof)fermarti.

Quasi sempre non puoi. O non vuoi.

Stavolta, invece, avanzo lenta. La strada davanti a me è tracciata solo a matita. A Cordoba avevo scoperto che da Buenos Aires stavo risalendo il Camino Real, il percorso che dalle ricche miniere di argento della Bolivia portava al porto sul Rio de la Plata, da cui le ricchezze prendevano il mare verso le casse spagnole.

Così, eccomi a Potosì.

Fermi, in silenzio, ci scrutiamo.

Noi dietro al parabrezza, lui ben piantato in mezzo alla strada. Come nella più classica delle rappresentazioni lui, l'asino, mantiene cocciuto la sua posizione. E noi, tre tedeschi e un'italiana saltata all'ultimo sull'auto, non sappiamo esattamente come comportarci.

Ci avevo provato, a capire se era possibile arrivare a Cachi da Cafayate. Impossibile con i mezzi, il colectivo arriva fino a Molinos da un lato e ad Angastaco dall’altro. In mezzo, quaranta km raccontati come meravigliosi e selvaggi. I tour, certo. Accettando qualche compromesso in termini di gestione dei tempi del viaggio e di prezzo. Ma che non partono per una sola persona. Insomma, una piccola avventura.

E poi quel mattino, facendo colazione, sento i tre seduti al tavolo a fianco che nominano Cachi. Esito. Ho già pagato la stanza per la notte, ho già il biglietto per Salta per la mattina successiva. Però.

Chissenefrega.