Quando salta fuori che sto per partire con il mio zaino e senza accompagnatori, la seconda domanda che mi viene fatta è “Ma come fai a stare tutto quel tempo da sola?” In realtà, non va proprio così. Certo, quando viaggi in solitaria, hai sempre l’opzione di chiuderti in te stesso e osservare il mondo dalla tua bolla. Ma puoi decidere invece di mettere a frutto il naturale istinto che ci rende creature sociali. Sembra incredibile, ma persino io in queste circostanze mostro di averlo.

Sono fortunata. Quando ero piccola, i miei genitori ci hanno fatto viaggiare parecchio. Anche se in cinque non era una passeggiata, caricare armi e bagagli e trovare il modo di tenerci sufficientemente occupati da non perdere il senno prima dell’arrivo. Sono fortunata perché mi hanno permesso di guardare oltre il muro di cinta del giardino di casa e, ancora di più, di imparare a vedere la bellezza meno scontata. E così, di imparare anche cosa fosse per me, la bellezza.

Sul sedile posteriore c’era sempre l’atlante stradale.

Da bambina, per me era un libro da aprire, sfogliare, in cui perdermi. Quei nomi così strani, quei luoghi che esistono non solo sulla carta ma anche nella realtà. Le mete, in quei viaggi, raramente erano quelle più canoniche. Ho visto Roma per la prima volta a vent’anni, da sola, ma avevo visitato Aquileia e il Friuli. Firenze era stata una tappa rapida tornando dalla Maremma. Andavamo in Abruzzo e scarpinavamo per il Parco Nazionale. Ricordo le strade di Spello, le vecchiette vestite di nero che lavoravano al tombolo. Già allora le cose nuove mi entusiasmavano, ricordo di aver cercato in ogni modo di farmi regalare tutto l'occorrente per imparare a fare quei pizzi delicati. Chissà. Forse avrebbe portato a una storia tutta diversa. O forse no.

Se la parola che ho scelto per questo 2017 è completa, forse Buenos Aires è proprio la città che faceva per me.

Tra i vari “prodotti derivati” del master in coaching, quello verso cui nutro probabilmente le sensazioni più contrastanti è legato all’opportunità di sperimentare gli esercizi che vengono poi utilizzati in sessione individuale o all’interno dei workshop. Non che sia obbligatorio, capiamoci. Ma, curiosa come sono, aver riscoperto il piacere di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo mi da grande soddisfazione. E da brava secchiona, assegnare invece un esercizio senza averlo provato in prima persona mi provoca sempre un po’ di ansia da prestazione. D’altra parte, l’effetto collaterale di un esercizio ben mirato è quello di portare nuove riflessioni, mostrare punti di vista differenti - il che raramente si realizza senza qualche piccolo scossone.

È appunto così che sono arrivata alla parola dell’anno. Ne avevo letto e sentito parlare, con differenti sfumature e modalità. E quando ho provato ad individuarne una per guidarmi nei successivi dodici mesi, mi ha dato esattamente quel momento di occavoloquestanonmelaspettavo che identifica un esercizio ben riuscito.

Ma, probabilmente era solo l’inizio.

Certe mattine ti alzi con il piede sbagliato, nessuno sembra capire quello che dici e ti sembra poco probabile che le cose possano migliorare nel prossimo (e a volte, se ti senti particolarmente pessimista, anche nel più lontano) futuro.

Ognuno ha la propria strategia per affrontare giornate così.

C’è chi infila il cucchiaio nel vasetto di gelato, chi va a fare shopping. Chi se la prende con il primo che gli capita a tiro. Chi si rifugia nella lamentela di quello che in ufficio avevamo definito “l’angolo della sterile polemica”. Io, solitamente, immagino di abbassare con tutta calma lo schermo del portatile, chiuderlo nell’armadio, uscire dalla porta e andare direttamente in stazione senza nemmeno passare da casa.

Che in pratica è quello che ho fatto.

D’accordo, non mi sono esattamente svegliata una mattina e ho fatto lo zaino per accontentare una voce che mi suggeriva insistentemente di partire. Erano probabilmente settimane o anche mesi che mi svegliavo ogni giorno con quel senso di insofferenza, di essere sempre in bilico senza riuscire a fermarmi. Con quel pensiero in testa.

La differenza è che questa volta l’ho ascoltato.

Saliamo al quinto piano, giornata torrida, è inevitabile sentirsi di nuovo a scuola, in quei giorni sospesi che precedono le vacanze estive. Quelli che non sono più vere e proprie lezioni, non sono ancora libertà assoluta. Mi siedo in un banco in fondo. Osservo. Ognuno dei partecipanti con i propri libri e quaderni, ordinati o alla rinfusa, gli appunti, le risate, un gruppo che ha fatto un percorso insieme.

Arrivo all’ultimo degli incontri di Bookcoaching ospitato da Equi.Libri in Corvetto e dedicati alle Chiavi delle Felicità, ma ho seguito il percorso di Francesca e Flavia quasi dall’inizio, da quando un anno e mezzo fa si sono incontrate e poi, un po’ per caso e sempre più per scelta, hanno iniziato a costruire il loro progetto.