Ormai è più di un anno che non corro. Cioè, non è esatto dire che non corro, nel senso vero e proprio del termine. Almeno tre volte a settimana mi butto giù dal letto, mi infilo le scarpe e faccio il mio giro. Ma corro poco, corro per abitudine, corro senza grande gioia.

Della potenza delle abitudini, d’altra parte, mi accorgo soprattutto quando sono stanca.

Per me essere stanca significa prima di tutto essere scarica di testa, perché da tempo ho capito che invece il sensore che indica la fatica fisica deve essere staccato o rotto, forse non è mai esistito o per lo meno non l'ho mai ascoltato. Ma, come chiunque, non posso certo fare finta di non essere mentalmente affaticata, ultimamente.

Non c’è da stupirsi, che abitudine e stanchezza interagiscano così. Il meccanismo alla base della ripetizione automatica parte infatti proprio da lì: il nostro cervello consuma almeno un quinto di tutta l’energia del nostro metabolismo basale. E questo quando siamo a riposo. Immaginiamoci cosa succede quando i pensieri ci sembrano un bandolo da districare.

Così, il cervello ama le abitudini perché gli permettono di risparmiare, tanto che si calcola che il numero di azioni che svolgiamo in automatico sia vicino all’80% di tutto ciò che facciamo in una giornata media.

Il problema è che il meccanismo della routine, o della comfort zone, rassicurandoci nella ripetizione di ciò che conosciamo, inizia con l’obiettivo (positivo) di minimizzare i pericoli, ma rischia in realtà di diventare un vincolo ingiustificato, una distorsione cognitiva che, proprio come uno specchio deformante, ci permette di vedere la realtà attraverso un unico filtro.

E non è detto che sia il filtro migliore.

Al liceo la fisica mi sembrava una grande fregatura. Alla prima lezione mi avevano illuso che in quelle formule avrei capito il funzionamento del mondo, alla seconda già mi dicevano che però dovevo considerare un sistema ideale, in cui punti senza peso e senza dimensioni si muovevano in uno spazio senza aria e senza gravità. Un interessante esercizio teorico, ma io volevo capire come funzionavano davvero le cose.

Di quelle formule ricordo ben poco, ma in questi giorni ogni tanto ci penso.

Per settimane ho rallentato e rallentato, e adesso cavoli se la sento, l’inerzia che rende difficile riprendere il movimento.

Principio d’inerzia: un corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a modificare tale stato.

Mi sento proprio così. Magari non ferma, ma certo frenata. Come se ogni azione richiedesse una quantità di energia superiore al consueto. Un'energia che fatico a ritrovare.

Si diceva che intanto bisogna fare il primo passo, e su quello Lucia era partita carica e piena di entusiasmo. Nel suo lavoro è sempre stata brava, i risultati arrivavano e gli obiettivi, anche quando erano impegnativi, non avevano tanto rappresentato un ostacolo ma una sfida stimolante, una scalata per arrivare in vetta e piantare, fiera, la sua bandierina.

Solo che,  a distanza di un anno dalla decisione di mettersi in proprio, le cose non stavano andando esattamente come pianificato.

Perché nessuno le aveva detto che anche i sogni devono superare un test di sostenibilità?

Non credo di aver mai viaggiato tanto come quest’anno. Sarà che nel precedente ero rimasta praticamente ferma, un po' perché reinventare la propria vita richiede tutte le energie a disposizione per definire nuovi punti di riferimento, un po’ perché ero talmente presa dall’osservare il mondo che cambiava intorno a me, e il cambiamento che vivevo in mezzo a questo turbine, che quasi avevo scordato il desiderio di cercare la prospettive di latitudini diverse.

Quest’anno sono stata a Malta, Berlino e Bilbao.

In Giappone e in Texas.

A Torino e Trieste, Bologna e Venezia, Genova e Trento, Rimini e Firenze. 

Sto sperimentando la vita che volevo, quella per cui ho scelto di lasciare il lavoro in azienda e di esplorare un modo alternativo di fare le cose. Quella in cui ho imparato a distinguere tra raggiungere un obiettivo (che però magari è di qualcun altro) e darsi un obiettivo (e, subito dopo, concretizzarlo).

Per certi versi questo è stato un anno di grande successo. Per altri, ho ancora un sacco di passi da fare.

[dalla newsletter di Brené Brown]

La decima volta che rileggo la frase. Forse potrei trovare un sinonimo, forse non ha il ritmo giusto. Non sono io che parlo, lo so, ma il perfezionismo, con la sua espressione scettica e lo sguardo di chi pensa non arriverai da nessuna parte.

Perfezionismo è una parola dalle mille sfaccettature.

Sembra abbia una definizione differente per ogni persona con cui parli. C’è chi lo identifica come modello positivo, volto a raggiungere il miglior risultato possibile. Chi mette in evidenza i rischi della ricerca costante di un ipotetico ideale che, ovviamente, è destinato a sfuggirci costantemente. Addirittura nel linguaggio medico identifica una vera e propria patologia, una “tendenza nevrotica che può impedire all’individuo di attuare cose relativamente semplici perché il suo narcisismo e la sua autocritica spostano costantemente tale attuazione verso obiettivi ideali irraggiungibili” (non ci vanno leggeri).

Noi donne, poi, tendiamo ad avere una lunga lista di temi che scatenano il nostro perfezionismo.

Ci vediamo per un caffè, e Giuliana va dritta al punto:

Tu come lo gestisci, un rifiuto?

Lei, mi dice, piuttosto male. Ci conosciamo da un anno, e tante cose sono cambiate da allora. La scorsa estate era disoccupata e un po’ confusa, oggi ha un bel ruolo nell’area vendite di in un’azienda in crescita e attenta alle proprie persone.

Un commerciale che fatica a gestire il rifiuto, però, non ha vita facile.

Non che per gli altri sia più semplice. Proprio mentre scrivevo questo pezzo anche io ho ricevuto un no che non mi aspettavo. Sono io che ho posto la domanda, e quindi da un punto di vista razionale sapevo che la risposta avrebbe potuto essere negativa. Ma quando si parla di rifiuto, la logica centra ben poco.

Credo che i Giapponesi riescano a inserire uno scusa in ogni frase che pronunciano. Scusa quando devono farti attendere e scusa quando non sanno rispondere alla tua domanda. Ma anche scusa se vi incrociate sulla stessa soglia e dovete decidere chi passa per primo, scusa se alla cassa del supermercato ci sono più di due persone in fila.

Forse non ci avrei fatto così tanto caso se qualche anno fa non avessi letto uno studio sull’utilizzo di questa parola nelle diverse culture e nei diversi contesti: è così che ho iniziato la mia piccola battaglia culturale nei confronti dell’abuso di questa parola

Dire scusa sembra un modo innocuo per iniziare un’email, per introdursi in una conversazione, per sostenere la propria opinione senza sembrare troppo aggressivi. Sembra così innocuo che è diventato un’abitudine di cui non ci rendiamo più conto

E noi donne diciamo scusa un sacco di volte, e troppo spesso lo diciamo a sproposito.

Da bambina alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” restavo muta.

Nei colloqui a “Come si immagina tra cinque anni?” non sapevo cosa rispondere.

Eppure una volta entrata nel mondo del lavoro sembrava avessi trovato rapidamente la mia strada, ogni volta che emergeva un nuovo progetto mi proponevo, sono stata promossa a posizioni interessanti.

La verità, però, è che ho sempre rischiato poco, perché cercavo prima di tutto di evitare il fallimento.

Ci raccontiamo storie di quanto gli altri siano più coraggiosi di noi, di come per loro sia più semplice fare scelte contro corrente, perché loro ci sono nati, con quella determinazione. Tutte storie.

Abbiamo tutti paura.

Natale_Valparaiso_Cerro Alegre_freelance

È arrivato dicembre.

Il mese delle luminarie, dei mercatini, del “se non ci vediamo più inizio a farti gli auguri”. Il mese in cui inizi a riflettere sull’anno passato, sui progetti che avevi e su quello che hai effettivamente realizzato. Il mese dell’ansia del tempo, già veloce nei mesi precedenti e che adesso sembra scorrere come un fiume in piena, che nella sua corsa travolge tutti i programmi, e te nel mezzo.

Ancor più se sei un freelance.

Sono stanca. Sono settimane che prometto e mi riprometto di fermarmi e fare il punto della situazione. Di quest’anno diverso da tutti gli altri, di quest’anno libero.

Essere liberi è bellissimo, ma non è così semplice come sembra.